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L’esorcismo – Ultimo atto

2024
Titolo Originale:
The Exorcism
REGIA:
Joshua John Miller
CAST:
Russell Crowe (Anthony Miller)
Sam Worthington (Joe)
Ryan Simpkins (Lee Miller)

Il nostro giudizio

L’esorcismo – Ultimo atto è un film del 2024 co-scritto e diretto Joshua John Miller.

Quando si prova a raccontare una storia di possessioni, il rischio di appiattirsi all’incunabolo del genere, L’esorcista di Friedkin, è sempre molto alto, tanto quando la probabilità di fallire nel tentativo di allontanarvisi. L’esorcismo – Ultimo atto, sciocco adattamento italiano del più secco titolo originale The Exorcism, è un curioso ibrido tra le due direzioni. I due sceneggiatori e registi, M.A. Fortin e Joshua John Miller, partner nel lavoro e nella vita, non nascondono neanche per un momento la derivazione dal film del 1973, che anzi diventa un interlocutore onnipresente all’interno della narrazione. C’è del coinvolgimento personale, a dirla tutta, nel tirare fuori il film di Friedkin: Joshua John Miller è infatti figlio di Jason Miller, che nel primo e nel terzo capitolo della saga interpretava il tormentato personaggi di Padre Carras.

Facendo un passo in avanti dai semplici collegamenti tra le due opere, L’esorcismo – Ultimo atto sorprendentemente adotta lo scheletro del film di possessioni usandolo come una sovrastruttura, un telaio, su cui si poggia una storia in bilico tra realtà e finzione e proprio il metacinema è una chiave di lettura interessante e poco abusata all’interno del genere. Il film si apre con un attore che muore durante le prove per il film The Georgetown Project. Al suo posto viene assunto Anthony Miller (Russell Crowe), un attore di decadenza con un tormentato passato fatto di abusi da parte di un prete e la dipendenza dall’alcol. Sin dall’inizio della lavorazione però Miller comincia a cambiare il proprio comportamento e a lettura del copione lo porta tra le braccia di un demone che lo possiede e ne sfrutta tutte le debolezze, logorandolo fisicamente e mentalmente. L’unica speranza per Miller è l’aiuto della figlia Lea (Ryan Simpkins).

A Miller e Fortin sembra interessare poco la narrazione esorcistica in sé, che difatti non funziona, sfavorita da un andamento poco organico e un ritmo blando, poco ispirato. Più interessante è l’intuizione di connotare l’ossessione presente nel mestiere dell’attore che, al pari di una vittima di una possessione demoniaca, si abbandona nelle mani e nelle intenzioni di un elemento esterno (lì il diavolo, qui il personaggio da interpretare), con tutti i rischi annessi e connessi. Propedeutico a questo assioma, il personaggio di Russell Crowe interpreta un prete, figura che scatena in lui paure e traumi dal passato: la lettura della sceneggiatura, quindi il primo impatto col proprio personaggio, segna l’inizio della consunzione fisica, prova visiva di quella psicologica. Forse in maniera poco intenzionale è in effetti il drammatico rapporto padre – figlia, resa egregiamente sia da Crowe che dalla Simpkins, la cosa più riuscita di un film che, come horror demoniaco funziona poco e male, preferendo piuttosto i demoni metaforici del passato, del trauma.