Lo zoo di venere
1985
Greenaway ci fornisce la sua versione sovversiva del triangolo amoroso, con una commedia grottesca infarcita di colori sgargianti e dialoghi surreali.
Sin dal lontano 1980, l’anno di The Falls, Greenaway ha sviluppato due fissazioni strettamente connesse tra loro e che in un certo senso si potrebbero leggere come i volti complementari e consequenziali della stessa medaglia. Da una parte l’etologia (interesse mutuato dal padre), dall’altra la morte, la decadenza, la decomposizione intese come scomposizione della Natura nei suoi processi biologici basilari.
Anche in questo film c’è spazio per la solita sbobba, digeribile o riscaldata sia lo spettatore a stabilirlo. L’unica differenza sostanziale è che dalla ristretta cerchia aviaria del suo primo lungometraggio, si scivola in un ginepraio di mammiferi, pesci, insetti e via delirando. Una sorta di circo brulicante retto da due etologi, fratelli gemelli nati siamesi e che, onde evitare una discutibile carriera nel mondo circense, preferiscono la scissione chirurgica al pubblico ludibrio. Finendo poi a lavorare in uno zoo. Quando si dice il destino. E sempre parlando di destino, sarà proprio un cigno a provocare l’incidente mortale in cui sono coinvolte le rispettive consorti.
Questo cagionerà il collasso mentale di Oswald e Oliver (interpretati dai fratelli Brian ed Eric Deacon) che, come gli inseparabili cronenberghiani, si dedicheranno anima e soprattutto corpo nello studio matto e disperatissimo dei processi putrefattivi. Dapprima con moderazione, raccattando carcasse di alligatori e uccellini e fotografandone il disfacimento. Quindi, quando il gioco sfugge di mano, andando sul pesante e sacrificando se stessi all’altare della scienza. Tra questi opposti si colloca Alba Bewick (Andréa Ferréol), matura e aristocratica signora che, svegliatasi priva di una gamba, commenta con cinica amarezza: “Nella terra delle donne senza gambe, chi ne possiede una è regina”. Salvo poi farsi amputare l’altra da un chirurgo pazzo ossessionato dai quadri di Veermer, stesso medico che vorrebbe ricucire i due fratelli per ragioni non meglio precisate. Per tutte le due ore di proiezione, assistiamo al balletto assurdo di personaggi senza senso, dalla prostituta che eccita i clienti raccontando storielle sporche a contenuti, ça va sans dire, zoofili, fino al fantomatico Felipe Arc-en-Ciel, uomo che s’è fatto rubare le gambe meccaniche per riempire la bara vuota di una prostituta mutilata.
Parlare di Peter Greenaway significa innanzitutto parlare di cinema, e delle molteplici relazioni che intercorrono tra questa forma espressiva e le altre arti. Lo zoo di Venere, d’altronde, non fa eccezione, collocandosi appunto in quel crocicchio indefinibile tra cinema, tableau vivant, pantomima surreale e satira alla Beckett. E qui sta l’inghippo. Come considerare la ricerca del regista inglese? Sperimentazione o semplice masturbazione visiva? Il problema di Greenaway è forse la sua bravura tecnica, nel senso etimologico del termine, cioè la tecnica come duplicità strutturale e creativa, da una parte il coté artigianale, manuale, e dall’altra la possibilità di veicolare il contenuto, l’essenza. Il suo lavoro non manca certo di accuratezza e attenzione al dettaglio, ma il risultato è sempre quella freddezza di fondo, quella ciclicità che alla lunga stanca o, peggio, lascia indifferenti. Ci si può anche abbuffare di colori, forme, dialoghi a botta e risposta fulminanti, ma sempre con il rischio peregrino dell’indigestione. Maneggiare con cura.