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L’occhio selvaggio

1967
Titolo Originale:
L'occhio selvaggio
REGIA:
Paolo Cavara
CAST:
Philippe Leroy (Paolo)
Delia Boccardo (Barbara Bates)
Gabriele Tinti (Valentino)

Il nostro giudizio

L’occhio selvaggio è un film del 1967, diretto da Paolo Cavara.

L’occhio selvaggio (1967) di Paolo Cavara è una pietra angolare del cinema italiano, un film in avanti coi tempi, che fa da linea di confine stabilendo un prima e un dopo – sia nella carriera del regista, sia nella rappresentazione dei rapporti tra cinema e realtà. Sicuramente è uno spartiacque nella filmografia di Cavara: se fino a prima si era dedicato alla co-regia dei mondo-movie con Jacopetti e Prosperi, con questo film chiude la sua fase precedente per dedicarsi poi ad esplorazioni personali di vari generi. L’occhio selvaggio è un film di rottura, nascendo proprio come una denuncia (un j’accuse) dei mondo-movie, del sensazionalismo pseudo-giornalistico che gli shockumentary volevano proporre al pubblico per turbarlo e scandalizzarlo, a costo di deformare la realtà, mescolando scene autentiche con altre realizzate ad hoc ma fatte passare per vere. Come fa notare Alberto Pezzotta, dietro la figura del regista protagonista (che si chiama Paolo, come Cavara) si nasconde Gualtiero Jacopetti – in modo neanche troppo velato – quale netta presa di distanza dal suo stile e dai suoi commenti razzisti che accompagnavano i mondo-movie con l’immancabile voce narrante. Alla scrittura di L’occhio selvaggio collaborano figure di spicco della letteratura italiana, Fabio Carpi e Ugo Pirro (futuro sceneggiatore di Elio Petri), mentre la sceneggiatura porta la firma, oltre che di Cavara, di Tonino Guerra e Alberto Moravia.

La storia ruota attorno a un regista italiano, Paolo (Philippe Leroy), che gira il mondo per realizzare il film-documentario da sempre sognato in cui mostrare i fatti più estremi e bizzarri dell’essere umano. Dopo una caccia alla gazzella nel deserto africano che si conclude con un durissimo viaggio a piedi insieme a due coppie e al fedele operatore Valentino (Gabriele Tinti), Paolo convince Barbara (Delia Boccardo) a lasciare il marito John (Lars Bloch) per seguirlo nelle sue avventure. Partono quindi per Singapore, dove visitano e filmano le prostitute sordomute e una comunità per oppiomani in cui i tossici vengono curati a suon di frustate; intraprendono una spedizione nel Sion, alla ricerca degli uomini in letargo, finendo per incontrare un sultano caduto in disgrazia; infine passano in Vietnam, tra fucilazioni e attentati.

L’occhio selvaggio è un film brutale e sconvolgente, non tanto per la violenza fisica esplicita (presente in due o tre scene), ma per la condizione quasi apocalittica che squarcia sul cinismo umano e sulla crudeltà con cui può essere utilizzata la macchina da presa. Paolo – un Leroy in stato di grazia – è affetto da una sorta di bulimia cinematografica, provando un bisogno mentale e corporeo di filmare tutto ciò che può essere utile per il suo mondo-movie (perché, in fin dei conti, è questo che il protagonista vuole realizzare). Anche la seduzione di Barbara (la Boccardo in una delle sue prime apparizioni, già splendida e ricca di potenziale erotico) si rivela finalizzata al suo film: la donna è per lui un oggetto, uno sfogo sessuale, e collocata nel documentario ha la funzione di impressionare ancora di più gli spettatori per il desiderio sadico e al contempo masochista del pubblico. Leroy dà vita a un personaggio squallido, cinico, senza scrupoli, pronto a tutto in nome della fama e dell’audience, a cui si dimostra partecipe l’altrettanto viscido produttore che lo accompagna. Le sue azioni bieche accompagnano la vicenda dall’inizio all’impressionante conclusione: boicotta il Safari per restare a piedi e filmare la sofferenza dei partecipanti (ovviamente pre-stabilendo l’arrivo dei soccorsi); non si accontenta di veder frustare gli oppiomani, ma per rendere la scena più sconvolgente li fa bastonare; propone a un monaco buddista di darsi fuoco usando come scusa la propaganda; si diverte a umiliare un sultano caduto in disgrazia facendogli mangiare una farfalla; filma una fucilazione facendola spostare contro un muro più adatto alle riprese; infine, riprende un attentato in cui Barbara perde la vita, obbligando l’operatore a filmare la scena – incredibile come ricordi il finale del successivo Cannibal holocaust (1980).

Una menzione particolare per il monaco buddista e la fucilazione, che sono le due frecciate più evidenti contro Jacopetti, che in Mondo cane 2 si riteneva avesse filmato un vero bonzo arso vivo (solo dopo si è scoperto trattarsi di un fake), mentre in Africa addio girava la voce che avesse fatto ritardare una fucilazione per preparare la troupe (anch’essa rivelatasi una falsa esecuzione). Ma L’occhio selvaggio va anche oltre la denuncia degli shockumentary, proponendo la macchina da presa come un “occhio che uccide” e proseguendo il discorso iniziato dal thriller omonimo di Michael Powell ma anche da Blow up di Antonioni, con l’obiettivo che diventa uno strumento per “violentare” la realtà, piegarla ai propri scopi, ma che spesso si rivela essere fallace o addirittura pericoloso. Come fa notare la Boccardo a Leroy, quello che lui vorrebbe filmare è il declino dell’Oriente, ma in realtà sta contribuendo al declino della società occidentale: la società del denaro, della fama, della presunta superiorità razziale, tutti dis-valori in cui Paolo è coinvolto a causa di un sistema commerciale più grande di lui, che comprende naturalmente anche il cinema. E i cannibal-movie d’autore come Ultimo mondo cannibale e, soprattutto, Cannibal holocaust sono in un certo senso “figli” del nostro film (senza L’occhio selvaggio non ci sarebbero stati i film sui cannibali, sostiene Pezzotta), per la violenza con cui la realtà viene ripresa, deformata e falsificata: ricordiamo che anche Cannibal holocaust era, tra le altre cose, una denuncia dei mondo-movie mascherata da horror. Cavara dimostra di possedere un forte senso narrativo ed estetico: complice la produzione abbastanza grossa (Georges Marci per la Cavara Film) e la fotografia di Marcello Masciocchi, L’occhio selvaggio è un’opera profondamente autoriale e personale che si svolge quasi come un film d’avventura, ambientando i vari episodi in affascinanti location reali quali il deserto africano e l’Asia. Da notare anche come la regia sia fra le prime a utilizzare la musica a contrasto, con la predominanza di sonorità pop-sessantottine realizzate da Gianni Marchetti che contrastano con la violenza narrativa e visiva.