M
2018
M è un film del 2018, diretto da Anna Eriksson.
Dopo il primo quarto d’ora di M, già provati dai precedenti 20 minuti dell’inutile Malo Tiempo di Tommaso Perfetti (che inspiegabilmente, almeno per me, ha vinto il premio per il miglior corto…), la tentazione sarebbe quella di abbandonare la sala a favore di una bella pizza, ovvero ciò che ha fatto una decina fra i già rarefatti spettatori della Perla 2, 75esima Mostra del cinema di Venezia, sezione Settimana della critica. Resistendo, invece, si viene ricompensati, anche se attraverso immagini travolgentemente efficaci, ma anche assai forti e tenebrose. La bellissima bionda finlandese Anna Eriksson di questo suo M è interprete, regista, sceneggiatrice, montatrice, autrice delle musiche, scenografa e costumista. Insomma, ha fatto quasi tutto lei.
Più che un film, in effetti, si tratta di una performance di body art il cui tema, antichissimo, di eros e thanatos, viene sviluppato attraverso una personalissima visione del mito di Marilyn Monroe (da cui M) amata e mitizzata dall’artista quarantunenne, nota in patria soprattutto come pop-star (ha venduto quasi 500.000 dischi…).
Eriksson ha impiegato quattro anni a realizzare l’opera e l’attenzione al particolare emerge ad ogni scena: da quelle più crude (vagine con pelo spalancate e in primissimo piano dalle quali escono strani alien neri, farfalle “impiantate” sottopelle, labbra coperte di rossetto riproposte più volte a tutto schermo) che ricordano i film porno-grotteschi di Luigi Atomico e del suo “allievo” Lucio Massa che, a sua volta, capta molto dai film di Alberto Cavallone dal quale la Eriksson non è poi così lontana; a quelle più incomprensili (giardinieri che spingono carriole piene di foglie verdi piuttosto che spiagge desolate della California (in realtà del Portogallo dove il film è, per lo più, girato) popolate da strani personaggi come un’androgina signora lesbo che non smette mai di fumare o registrazioni su nastro dense di conversazioni fra Marilyn e un misterioso interlocutore.
Un concetto base del film è quello legato allo «sguardo dell’uomo che immortala la donna nel sogno e nella perversione. E lo condanna nel sogno e nella perversione. Oppure vediamo non la trasfigurazione di una dichiarazione di impotenza femminile, ma anzi la sua unica possibile liberazione attraverso l’annientamento del corpo. Un corpo/immagine in questo caso», come scrive Carlo Valeri su Sentieri Selvaggi. Dichiara Eriksson di essersi ispirata, in ambito artistico-pittorico, a Francis Bacon e alle sue deformazioni visive della realtà, ma anche al re dell’iperrealismo Edward Hopper. Cinematograficamente, invece, uno dei registi a lei più vicini – per stessa ammissione della Eriksson – è David Lynch, ma anche Gaspar Noè le ha fornito numerosi spunti.
Sul finire di M, la regista-attrice, quasi sempre nuda, si ritrova, stavolta in divisa da cow boy, in una sorta di villaggio alla spaghetti western dove un messicano la fa salire su un cavallo (da soma) e, tirando le redini, la accompagna fuori campo. Il tutto farcito da una musica morriconiana. «Ho sempre amato gli spaghetti western», lei confessa. Oggettivamente, va detto, i cambi di scena (e di temi visivi) sono parecchio azzardati. Ma, nel complesso, il messaggio iconografico e allo stesso tempo iconoclastico trasmesso durante la proiezione del film resta impresso, anche per un bel po’, una volta usciti dalla sala. Messaggio di sesso, di morte e anche, in un certo senso, di femminismo, laddove il corpo della protagonista che, nell’ultima scena, si introduce, completamente nudo e ripreso di schiena, in uno spazio nero dal quale si prevede non farà mai ritorno, è un corpo di donna – come scrive ancora Valeri – «filmato, tagliato, masturbato». Mentre «lo sguardo dell’uomo immortala la donna nel sogno e nella perversione. E lo condanna nel sogno e nella perversione». Un affasciante viaggio per immagini nel più profondo inconscio femminile.