Marcello Mio
2024
Marcello Mio è un film del 2024, diretto da Christophe Honoré.
Chiara Mastroianni diventa suo padre Marcello Mastroianni. Attorno a questo assunto di base, a un’idea, ruota il nuovo film di Christophe Honoré, Marcello Mio, presentato in concorso al Festival di Cannes e nelle sale italiane dal 23 maggio. La questione, facilmente riassumibile, in realtà è più complessa. Tutto principia quando Chiara, impegnata nel provino per un film di Nicole Garcia, si sente dire dalla regista: “Serve meno Catherine Deneuve e più Marcello Mastroianni”. L’attrice viene dunque spersonalizzata, considerata in riferimento alla madre (Deneuve) o al padre, non in se stessa. È l’innesco: il giorno dopo la donna si guarda allo specchio e con un morphing il suo volto diventa quello, appunto, di Marcello Mastroianni. Il film inizia come un racconto di Gogol, attinto dall’assurdo e dal grottesco: come l’uomo che si specchia e scopre di non avere più il naso, così Chiara guardandosi apprende di essere suo padre. Impossibile? Sì, per questo anche plausibile. Quella della protagonista non è una stretta somiglianza sulla linea genetica padre-figlia (“Hai sempre avuto le sue espressioni”, Deneuve), ma proprio una trasformazione, un diventare l’altro: tanto che nella prima sequenza vediamo la Mastroianni reinterpretare Anita Ekberg che entra nella finta Fontana di Trevi ne La dolce vita, mentre alla fine lo rifarà nella Fontana vera vestendo i panni di Marcello. In generale, nel film gli attori vestono i panni di loro stessi e si chiamano coi loro nomi: la già detta Catherine Deneuve, ma anche Fabrice Luchini, Melvil Poupaud, Benjamin Biolay e perfino Stefania Sandrelli.
Così descritto, però, Marcello Mio potrebbe sembrare fin troppo intellettuale, consegnato all’autorialismo più intransigente che eccita i festival: non lo è. Una volta diventata Marcello, nella versione grafica felliniana (giacca, cappello, occhiali), Chiara Mastroianni ripercorre le tracce del padre sia umane che cinematografiche: per esempio, incontra un soldato inglese bisessuale in bilico sulla Senna che è una versione maschile di Maria Schell ne Le notti bianche di Luchino Visconti, cioè la straniera che proprio Mastroianni incontrava sul ponte di Livorno. E ancora: c’è un cane che segue Chiara, come il divino Marcello attirava a sé gli animali più svariati. Si procede così, nel vagare notturno e diurno, sino ad arrivare all’apoteosi, quando sulla spiaggia Chiara-Marcello rivede una figura che potrebbe essere Paola (Valeria Ciangottini), ossia la ragazza che saluta Mastroianni nel finale de La dolce vita, sessantacinque anni dopo, ma non ricorda più il suo nome. In mezzo al percorso si innesta un cortocircuito: se alcuni continuano a prendere le distanze dal nuovo Marcello, come Melvil, altri invece ci credono e superano la barriera tra rappresentazione e realtà. È il caso di Catherine Deneuve che inizia a regolare i conti con l’ex, grande traditore seriale, bugiardo compulsivo, forse perfino amante di Maria Callas, e si giunge al paradosso che la madre bacia in bocca la figlia-marito.
La parte migliore è sicuramente la sezione italiana: convocato in Rai per un’intervista, Marcello-Chiara si reca (pardon, torna) a Roma e viene condotto negli studi di Saxa Rubra, dove lo aspetta un programma-trappola con i sosia di Mastroianni e la Sandrelli in studio, la quale rievoca Divorzio all’italiana di Pietro Germi in cui si univa proprio con Marcello. Qui si scatena l’idiozia del programma televisivo oggi: da una parte diventa una trasmissione psicanalitica che inchioda Chiara alla sua vera essenza, dall’altra il caso slitta sul piano mediatico e fa esplodere tutta l’imbecillità del presente, nei giochi a quiz, nelle sorprese in diretta di cui il servizio pubblico è l’epitome. Chiara-Marcello non può fare altro che fuggire.
Marcello Mio è insomma un inchino riverente a Mastroianni, certo, riconoscendo per l’ennesima volta la sua figura attoriale come sorgente del cinema italiano, impossibile da abbandonare, a cui si torna sempre. Chi ama quella stagione si divertirà col gioco delle citazioni. Ma è anche una storia lacerante su chi siamo davvero e sulla difficoltà di uccidere i padri, per interposta metafora: se il papà non può morire, tanto vale trasformarsi in esso. Dovendo scegliere un regista “mastroiannico” a cui si guarda, il film di Honoré nel suo passo onirico e nel tessuto malleabile della realtà dialoga con Federico Fellini. Ed è anche, infine, l’evocazione di uno spettro: nonostante il superamento finale che Chiara raggiunge, il fantasma di Marcello Mastroianni resta nell’aria. E in tutto il nostro cinema.