Megalopolis
2024
Megalopolis è un film del 2024, diretto da Francis Ford Coppola.
Inizia con dei ticchettii e dei rullanti di batteria che cadenzano le immagini oblique di palazzi e monumenti di New Rome, Megalopolis, l’ultima fatica (è proprio il caso di dirlo) di Francis Ford Coppola. L’azione è spezzata fin dall’inizio da tagli di montaggio improvvisi e inquadrature sbilenche, su una partitura sonora che, soprattutto nell’incipit, ricorda quella, sperimentale, che Stewart Copeland (mitico batterista dei Police) compose per l’altrettanto sperimentale Rumble Fish (1983, Rusty il selvaggio). È da qui che si deve ripartire se si vuol cogliere il senso di Megalopolis all’interno della filmografia di Coppola, e non dall’ennesima ridondante asserzione che vuole questo film come uno schianto commerciale per il quale il regista di Apocalypse Now ha investito tot milioni di dollari di tasca sua. Concentriamoci dunque sul film: l’incipit costituisce una dichiarazione d’intenti da parte del cineasta italoamericano, ovvero un volersi ricollegare al suo Io più sperimentale che, con Megalopolis, rinnova quella voglia di giocare con le forme e con i linguaggi del cinema, che non lo ha mai abbandonato. Fino agli ultimi sottovalutati titoli come il misterico Youth Without Youth (2007, Un’altra giovinezza), il familiare Tetro (2009, Segreti di famiglia) e il gotico Twixt (2011). Un constante inseguimento di qualcosa che sfugge, forse la quadra di un film-mondo che ancora non è stato concretizzato ma che, attraverso ogni passo filmico, viene formandosi nella sua non-interezza. È in questa costante ricerca, al di là delle mode e del senso comune, che risiede da sempre la cifra di Coppola.
Megalopolis è un ulteriore tassello della quest coppoliana nei confronti dell’utopia cinematografica che, nella trama del film, si rispecchia nell’utopia immaginata da Cesar Catilina (Adam Driver), architetto inventore di una nuova sostanza (la stessa di cui sono fatti i sogni?), il Megalon, dalla struttura malleabile e adattabile, a basso costo, capace di ricostruire perfino i tessuti umani. Una panacea della materia prima, a metà tra l’organico e l’inorganico, che diventa una sorta di misterioso MacGuffin, al quale si deve forse la capacità di Catilina di fermare il tempo a suo piacimento (o quasi). Cesar, che tiene il cadavere (o forse l’ologramma) della moglie morta conservato, proprio come faceva Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi (cortocircuito in cui non ci addentriamo), diventa un demiurgo del tempo, capace di fermarlo e riavviarlo, proprio come in una sala di montaggio. Di lui si innamora l’avvenente Julia, figlia di Frank Cicerone (Giancarlo Esposito), corrotto sindaco di New Rome, nonché maggiore oppositore all’utopico progetto Megalopolis, con cui Catilina vuole ricostruire New Rome dopo una catastrofe. In mezzo orbitano personaggi da declino dell’impero romano: Clodio (Shia LaBeouf), odiatore professionista e invidioso di Cesar, che aizza le folle al grido di slogan populisti; il ricco banchiere Hamilton Crasso (Jon Voight), nonno di Clodio e zio di Cesar, che preferisce il nipote al proprio discendente diretto; Wow Platinum reporter opportunista, vera dark lady della situazione, che ha una relazione con Cesar, sposa il vecchio Hamilton per convenienza, per poi infine manipolare sessualmente Clodio ai propri voleri.
Questi e altri personaggi gravitano attorno alla spettacolarizzazione del potere, che trova la sua massima espressione nei giochi circensi del Madison Square Garden, tramutato in un moderno Colosseo, dove corrono le bighe, si scontrano wrestler/gladiatori e si esibiscono felliniani clowns. L’antica Roma con i suoi fasti, i suoi vizi e le sue decadenze rivive in questa New York survoltata in una New Rome dai colori accesi, dove le statue della Giustizia e della Legge diventano proiezioni mentali delle angosce esistenziali di Cesar, pronte ad animarsi e sgretolarsi in concomitanza con i saliscendi emotivi del lungimirante architetto. A dirla tutta, l’intera metropoli, così come il film, potrebbero essere una proiezione del teatro interiore di Cesar, che si sdoppia e moltiplica in una serie di Doppelgänger, preda di sé stesso e delle proprie visioni. Fino a diventare una sorta di Freak, novello Fantasma dell’opera dal volto semi-sfigurato, ma in divenire, grazie alle magiche proprietà ricostitutive del Megalon.
Emblematica la figura di Vesta Sweetwater, parodia delle attuali icone pop alla Taylor Swift, nonché riferimento alle sacerdotesse che tenevano la fiamma della dea Vesta costantemente accesa e conservavano la verginità come voto al nume. Così nella corrotta e dissoluta New Rome del prossimo futuro, la verginità di Vesta viene ipocritamente considerata un valore assoluto, per il quale investire danaro in un’asta. Quando la presunta illibatezza di Vesta viene però snudata, il pubblico si indigna. Ma, come diceva qualcuno in Apocalypse Now, sarebbe come fermare qualcuno sul circuito di Indianapolis per eccesso di velocità.
La divisione dello schermo in tre porzioni, utilizzata da Coppola per rendere il parossismo delle scene di festa, oppure per suggerire la frammentazione dell’io di Cesar, più che all’Abel Gance di Napoleon (come rilevato giustamente da alcuni), ci sembra guardi agli split screen che tanto piacevano a De Palma e ad altri Movie Brats della New Hollywood degli anni ’70, di cui Coppola è stato il capostipite e Padrino.
Megalopolis non segue i tre atti dei manuali di sceneggiatura, né un pensiero logico e ben indirizzato, ma si affida ad un intuito pre-logico, puramente visivo e auditivo. Scandito da quegli opportuni ticchettii di cui dicevamo all’inizio, il racconto avanza con improvvisi scarti, ellissi e parentesi, in una sarabanda di visioni e riferimenti culturali che sarebbe impossibile riassumere qui e che, per certi versi, ricorda il miglior parossismo visivo di Luhrmann. Se siete in cerca di una sceneggiatura a tenuta stagna, di personaggi perfettamente delineati, allora fuggite pure da qui. Se invece volete abbandonarvi ad un’avventura creativa, in cui l’estro di Coppola è stato libero di plasmare un universo di immagini non addomesticate, dove la sontuosità del classicismo si mescola e sporca piacevolmente con lo sperimentalismo più sfrenato, dove riferimenti ancestrali si coniugano ad invenzioni visive che non hanno paura della propria sregolatezza e inattualità, allora troverete pane per i vostri denti.