
Mickey 17
2025
Mickey 17 è un film del 2025, diretto da Bong-Joo-ho.
Io sono vivo, voi siete morti! Ovvero il tormentone con cui Philip K. Dick ossessionava i personaggi del suo ineguagliato romanzo Ubik (1969), potrebbe attagliarsi bene anche alla nuova fatica cinematografica di Bong-Joo-ho, autore del clamoroso Parasite. Se però nel romanzo cyberpunk/gnostico dell’autore de Ma gli androidi sognano pecore elettriche, tale frase paradossale indicava la natura prettamente illusoria della realtà, basata su una simulazione non consensuale, in Mickey 17 il paradosso dickiano si applica alla lettera, nel senso che il candido ed altruista protagonista interpretato da un (mai così) allampanato Robert Pattinson, sembra essere, almeno nella prima parte del film, l’unico essere umano vivo, cioè attraversato da reali sentimenti di empatia verso il prossimo. A differenza della massa di coloni che abitano l’astronave diretta verso il pianeta Niflheim e che non sanno fare altro che chiedergli morbosamente “cosa si prova a morire?”. L’empatia era tra l’altro il discriminante, all’interno della narrativa dickiana, utile a distinguere gli esseri umani da eventuali replicanti/sintetici/cyborg, a seconda dell’universo narrativo di riferimento preferito.
Facciamo però un passo indietro alla trama: nel prossimo futuro, il 2054, in una Terra ormai allo stremo delle risorse, Mickey Barnes si indebita con un pericoloso e violento strozzino. Per sfuggire ad una morte orribile si imbarca su un’astronave diretta verso un nuovo pianeta da colonizzare, guidata dal politico tirannico e imbonitore Kenneth Marshall, un Mark Ruffalo talmente survoltato da ricordare il Luca Marinelli della serie M, nonché dalla moglie, spietata e manipolatrice, Qwen, Toni Collette, anche lei alle prese con una interpretazione sopra le righe. Pur di accaparrarsi un posto sul velivolo galattico, Mickey firma distrattamente un contratto dove si offre come Sacrificabile, ovvero come lavoratore utilizzabile in quanto cavia per esperimenti letali, oppure per mansioni potenzialmente mortali. La particolarità è che i sacrificabili vengono sottoposti ad un processo di “salvataggio” dei propri ricordi e della propria personalità su di un supporto hardware (un mattone rosso!) e, in caso molto probabile di morte, ad un processo di ristampa del proprio corpo, in cui verranno riversati di nuovo psiche e memoria. Mickey subisce dunque ben 16 morti violente e dolorose, prima che la diciassettesima copia sopravviva all’insaputa di tutti. Nel frattempo viene creato un ulteriore clone, il N. 18, generando una situazione paradossale in cui esistono due Mickey e incorrendo in una situazione illegale, che prevede la distruzione dei cosiddetti multipli. Da qui si scatenano una serie di conseguenze al confine tra il tragico e il grottesco, che coinvolgeranno anche gli Striscianti, creature indigene, forse intelligenti, del pianeta Niflheim, simili a grossi bufali, ma dalla bocca enorme che attraversa tutto il loro addome. Un misto dell’enorme maiale di Okja con qualche creatura di origine lovecraftiana.
Il clima glaciale sembra fare gioco a Bong quando vuole frequentare il genere Sci-Fi, fin dal notevole Snowpiercer (2013). Le nevi apparentemente perenni del pianeta Niflheim riecheggiano infatti quelle del regno del ghiaccio dell’omonimo reame della mitologia norrena, abitato da una razza di giganti, gli Hrímþursar, ovvero giganti di brina. L’analogia con gli Striscianti del pianeta in questione ci sta tutta, in una felice connessione con antiche narrazioni epiche. Saranno infatti queste creature a diventare il fulcro morale e narrativo della seconda parte del film, laddove nella prima era invece il tema sociale, terribilmente attuale, del lavoratore sacrificabile a tenere banco. Quando viene generato il multiplo di Mickey 17 e ci si trova in scena con due personaggi uguali, ma dalla personalità opposta, il film sembra prendere una direzione leggera alla Multiplicity (Mi sdoppio in quattro), la commedia di Harold Ramis del 1996 in cui, con ironia, si rifletteva anche non banalmente sul tema. Qui invece Bong sembra indeciso su quale strada percorrere e non spinge fino in fondo uno spunto narrativo che poteva essere molto interessante, lasciandolo cuocere in alcune gag dal sapore slapstick, sicuramente efficaci, ma dal respiro corto.
Il tono di Mickey 17 è costantemente tenuto sopra le righe, con scene dalla temperatura emotiva sempre elevata. Se alcuni autori, come per esempio Terry Gilliam, riescono a gestire perfettamente una messa in scena del genere, Bong invece non tiene bene le redini del racconto, sebbene il grottesco sia un registro a lui da sempre congeniale. Forse perché la carne al fuoco è tanta e, oltre al tema del doppio e quello dello sfruttamento del lavoro, ci infila anche la paura del diverso (l’alieno) nonché la caratteristica tutta umana di sterminare ciò che non comprende. Tutte materie che Bong ha sempre agilmente frequentato nel corso della sua filmografia, tramite i generi più disparati. Ma in Mickey 17 questi fili vengono solo accennati, rimanendo aperti, ma non in modo stimolante.
Il cuore etico del film è affidato al clone N.17 che, con la sua ingenuità, spontaneità, altruismo, ed apparente imperturbabilità, attraversa eventi incredibili come un Forrest Gump dei tempi attuali. Robert Pattinson, con la sua espressività allucinata e al tempo stesso empatica, rende perfettamente tali sentimenti, nonché quelli opposti, più viscerali e rudi, del suo ulteriore clone, il N.18. E’ nelle doti performative dell’attore infatti che il film trova un ottimo architrave su cui sostenersi. Mickey è il personaggio realmente umano ed empatico, dunque vivo secondo i canoni dickiani, a dare spessore e intensità al film, laddove i personaggi femminili come Nasha e Kai, pure animati da sentimenti analoghi, non colpiscono con altrettanta vividezza. L’ossessività e la morbosità con cui i superficiali compagni di viaggio di Mickey gli chiedono delle sensazioni relative alla morte, pure suggerivano un’occasione di riflessione cui il film di Bong purtroppo non presta orecchio. Come accennato, i temi sfiorati sono tanti, ma nessuno portato davvero fino in fondo, sia a livello narrativo, sia esistenziale. Non aiutano i numerosi spiegoni del personaggio principale come voce narrante. Rimane un gradevole intrattenimento fantascientifico che abita numerosi universi di riferimento e ne riecheggia temi, stili e look, ma senza riuscire a trovare una strada propria. Sono lontani i giorni del compatto e bellissimo Parasite, della fantascienza action/sociologica di Snowpiercer, dell’originale monster-movie The Host, oppure di Memorie di un assassino (2003), il folgorante secondo lungometraggio dell’autore sudcoreano che, tramite lo sviluppo di una trama avvincente, di genere, riusciva a suggerire una profonda e raffinata riflessione sul Male, senza dover spiegare o sbattere nulla in faccia allo spettatore, ma invece utilizzando il registro grottesco con grande consapevolezza. Aspettiamo Bong per altre prove più significative.