Featured Image

Midsommar – Il villaggio dei dannati

2019
Titolo Originale:
Midsommar
REGIA:
Ari Aster
CAST:
Florence Pugh (Dani Ardor)
Jack Reynor (Christian Hughes)
William Jackson Harper (Josh)

Il nostro giudizio

Midsommar – Il villaggio dei dannati è un film del 2019, diretto da Ari Aster.

I want let the sun go down on me, I want let the sun go down. Il culto del bagno a mare è una prerogativa dei tanti sud del mondo. Di tutti quei posti dove il caldo regna, cuoce membra e cervella. Il caldo regna, batte forte il sole, e allora splash, un tuffo dopo l’altro, a big splash, a bigger splash, come se non ci fosse un domani. Estate? Vamos a la playa! A nord invece no, pensano differente. Il caldo è un amico, un ospite più o meno atteso, desiderato e rispettato. I nord del mondo non si nascondono dal sole, lo coinvolgono invece nei loro giochi, si mostrano, si elevano. Abbagliati dalla luce, producono abbagli. Midsommar – Il villaggio dei dannati, di Ari Aster. Per parlarne, bisogna fare una partenza intelligente. Approcciarlo attraverso una teoria di visioni propedeutiche. Consigliate? Sicuramente. Necessarie? Molto probabilmente. Si può cominciare da The Wicker Man, si deve cominciare da lì. E poi: La fuga di Martha. The Sacrament. The Endless. Apostlo. The Green Inferno + Hostel. Bone Tomahawk. Opere eterogenee, registi di varia provenienza, che hanno in comune la comune, in senso lato. Precipitano, cioè, i protagonisti in un’alienitudine di contesto, sociale, antropologico, e li mettono variamente alla prova, o alle prove, ivi compresa una qualche forma di sacrificio o di soluzione finale. Questo è importante, perché la vulgata vuole che Midsommar rientri nella categoria degli horror folk tales, i racconti di paura che attingono a piene mani – insanguinate – nella tradizione e nei riti popolari. Bugia! Aster, per la verità, parla del suo film come di uno strano fairy tale, un racconto di streghe o fate e magia, e già questa indicazione appare meno fuorviante, ma non illumina.

Midsommar – Il villaggio dei dannati, invece, è un film sulle relazioni sociali e affettive, one to one, one to many, many to many. Relazioni che vengono rappresentate come suggestioni e dettate da cogenti stati di necessità, o di alterazione. Alterazione: tutto il film, dall’inizio alla fine, è attraversato dall’assunzione di sostanze psicotrope. Alcune di queste sostanze sono palesemente venefiche (ossido di carbonio); altre sono sgargiantemente psichedeliche; altre ancora sono terapeutiche. Servono a dormire, a non ricordare, oppure hanno effetti polivalenti, ma in questi casi restano così vaghe e indeterminate da sembrare placebo. Palliativi assunti per liberarsi da paure, vincoli e sovrastrutture. Midsommar è un insieme di Individui, in una società aliena, che assumono sostanze per rapportarsi senza sovrastrutture. Dall’hashish alle pozioni amorose, Aster non si, e non ci, risparmia. Privilegia l’inalazione, non disdegna l’assunzione per bocca: strane pietanze, con ingredienti tricologici, usate come incantesimi preliminari al rapporto sessuale. Rapporto sessuale al singolare: il rapporto sessuale, non i rapporti sessuali, perché in questa comune svedese il sesso è il feticcio, il babau: è presente, è immanente, è raccontato, è disegnato, ma se ne rimanda continuamente la visione. Il sesso è un climax del film, ed è consumato al chiuso, nell’oscurità, in manifesto contrasto con tutte le altre funzioni biologiche, che invece godono del plen air.  Si mangia all’aperto, si muore all’aperto, si piscia all’aperto. Ci si accoppia al chiuso. La segregazione della copula è uno sberleffo all’archetipo nel quale Midsommar  pare sguazzare, cioè la vita in una comune paleo hippie svedese. Lo stesso Aster, nell’incipit, ci mostra alcuni de suoi figuranti come ragazzini infoiati di Svezia quindi di sesso.

Invece. Invece, il sesso non è una liberazione, o uno sfogo dell’individuo, ma un rito collettivo, satanico più che orgiastico. Nella funzione rituale si cancella il libero arbitrio dell’individuo nella coppia. Della coppia soprattutto. Midsommar è un film di congiunti che si disgiungono, che muoiono male, o si suicidano, oppure che si lasciano, che si separano, rompendo traumaticamente vincoli e legami (anche un tubo legato allo scarico di un’auto è un legame). E’ quindi nella coppia che va cercato il conflitto alla base di tutto l’opera: Ari Aster infatti afferma che l’antagonista della protagonista è uno ed uno solo, il suo fidanzato, e che tutto il film è un’esperienza di (de)formazione individuale attraverso cui lei riesce a liberarsi di lui. Lei, quella che è al centro di questo Aster-mondo: di lei con il sesso sappiamo poco: presumiamo che consumi con il suo fidanzato, con la certezza che sono rapporti saltuari e non soddisfacenti, resi complicati da situazioni individuali e familiari. Rapporti complicati, come sensi e sentimenti repressi. Prima del folk tale, del fairy tale, del comune-tale c’è quindi il melodramma, è questa la chiave strabiliante di Midsommar. Solo lui e lei hanno compiutezza tridimensionale, solo lui e lei provano uno spettro di sentimenti positivi o negativi, con i quali lo spettatore è naturalmente portato ad empatizzare.

Gli altri – gli amici, gli hippie – sono amplificatori, moltiplicatori di stato, asettici ed impersonali come tanti followers. Pollici in su che camminano, sono tutti gli altri. In un mondo sempre esposto, dove tutto avviene sotto la luce di un sole che non tramonta mai. Chiaro il riferimento alle (ir)realtà da social network, addirittura lampante, corrusco il riferimento, quando lui e lei sono accompagnati fisicamente, emotivamente nel culmine dell’amplesso e nel culmine della liberazione dal dolore. Assistere al sacrificio umano, al rapporto sessuale, alla sofferenza, in Midsommar – Il villaggio dei dannati è importante almeno quanto praticare il sacrificio umano, scopare, soffrire: la rappresentazione dei diversi, estemporanei rituali dei nove giorni di festa ha sempre un pubblico di riferimento dentro il film, prima ancora che in sala. Così il finale, il grandioso, commovente, indimenticabile finale, come La casa di Jack che brucia all’inferno, è inscenato per la con(dis)sacrazione della protagonista. L’elemento teatrale e la ieraticità pagana delle figure femminili tornan in misura diversa, ma preponderante così come in Hereditary. Come in Hereditary, anche in qui c’è racconto ovunque: su tovaglie, su piastrelle istoriate, su steli runiche. Tracce e sottotracce che sembrano sviare l’attenzione, perché questo è un film di genere e derivativo, sa perfettamente da dove viene e sa cosa vuole essere. Una sgargiante, colossale, crisoelefantina storia d’amore, sbagliata.