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Milano odia: la polizia non può sparare

1974
Titolo Originale:
Milano odia: la polizia non può sparare
REGIA:
Umberto Lenzi
CAST:
Tomas Milian (Giulio Sacchi)
Henry Silva (commissario Walter Grandi)
Ray Lovelock (Carmine)

Il nostro giudizio

Milano odia: la polizia non può sparare è un film del 1974, diretto da Umberto Lenzi.

Diventato un classico del poliziesco all’italiana nonostante le intenzioni del regista Umberto Lenzi fossero quelle di fare un noir, Milano odia: la polizia non può sparare resta un film controverso. Sicuramente spettacolare e avvincente, soprattutto nella rappresentazione disumana (il titolo americano è Almost Human) della violenza. Lenzi era reduce dal successo dei suoi gialli-erotici con Carroll Baker, ma capiva che il filone si stava ormai estinguendo. I produttori, vecchie volpi come Luciano Martino che all’epoca fiutavano i generi di successo con scaltra abilità, cominciavano a investire su nuovi generi che rispecchiassero maggiormente il clima teso dei primi anni Settanta. In una società minata dal terrorismo e dalle stragi di piazza, a chi fregava più di eccentrici ricconi che si cornificavano e si uccidevano a vicenda per questioni di eredità? Lenzi, poi, si era già cimentato col genere in Milano rovente (1973) e sembrava il regista appropriato per questo nuovo filone. Trovata quindi la sceneggiatura giusta, scritta da Ernesto Gastaldi, il film poteva partire. Henry Silva era già in Italia e lavorava nei noir di Fernando di Leo; Ray Lovelock e Gino Santercole erano precisi per il ruolo dei criminali. Mancava però il nome che facesse la differenza, finché non saltò fuori quello di Tomas Milian. Lì successe il miracolo. Finalmente tutti gli ingredienti erano al posto giusto pronti per essere cucinati dalla mano esperta di un cuoco come Umberto Lenzi, che ancora non “schiavo” del genere poteva permettersi di aggiungerci quel tocco che rendesse piccante la pietanza.

Se Milano odia: la polizia non può sparare è quel prodotto così particolare, quella scheggia impazzita all’interno della produzione seriale del periodo, quel piccolo, grande, cult movie che oggi tutti riconoscono come tale, il merito è da ascriversi alla forza (e al talento) di Milian e Lenzi nel portare le situazioni al limite e oltre. Milano odia è un film selvaggio, spietato, violento. Forse il più crudele tra tutti quelli realizzati in Italia, proprio perché si prende tremendamente sul serio e non si tira mai indietro. Merito di Giulio Sacchi, la figura di villain che Tomas Milian, partendo dalla schematizzazione di Gastaldi, si è cucito addosso senza pudori né inibizioni. Non è più un segreto che per caricare maggiormente il suo personaggio Milian facesse uso di alcolici durante le riprese. Conoscere Giulio Sacchi è un’esperienza, perché è un carattere talmente pieno di sfaccettature e contraddizioni che ipnotizza, affascina e terrorizza allo stesso tempo. Quando lo incontriamo la prima volta è uno sgherro della banda di Maione (Luciano Catenacci) che manda a monte una rapina perché non riesce a mantenere i nervi saldi. Quindi Sacchi è un vigliacco? Anche. Ma Sacchi è anche un ambizioso. Figlio del proletariato, costretto a vivere nelle case popolari di Sesto San Giovanni, senza mai il becco di un quattrino e con ancor meno voglia di lavorare, Giulio Sacchi ha fame di emergere, di uscire dalla merda che lo sta sommergendo; ma lo vuole fare a modo suo: senza far fatica. Si crede il più furbo di tutti («Qui sta il genio di Giulio Sacchi: chi è quel rapitore che si fa consegnare i soldi a casa? Solo io, perché sono un signore!»), il più dotato (anche sessualmente, infatti dice alla povera fidanzata: «Se il colpo mi va bene giuro che ti riempio, non posso dire d’amore, ma d’uccello per tutta la vita!»), il numero uno (o almeno lo vuole diventare). E così escogita un piano con i suoi amici del bar, Carmine (Ray Lovelock) e Vittorio (Gino Santercole), che stufi di sentire i suoi pavoneggiamenti o perché, poveri disgraziati!, succubi della sua personalità, gli vanno dietro: rapire la figlia (Laura Belli) di un noto industriale. Sacchi, che si crede intelligente, architetta tutto nel modo più sbrigativo possibile, con l’idea di non lasciare testimoni e comincia a uccidere chiunque si trovi sulla sua strada; ma essendo anche un vigliacco ha bisogno di anestetizzare le proprie paure con la droga: «Questa roba qui l’hanno inventata quelli che vanno all’università per quelli come noi, così non ci pensiamo più!».

Il rapimento riesce e i cadaveri non si contano più. In una notte che sembra senza fine l’apice viene raggiunto in una villa di campagna dove Sacchi trascina i suoi complici in un’orgia di sesso e violenza. In questa scena, che è forse la più importante di tutto il film, Sacchi lascia intravedere altri lati “oscuri” del suo carattere: l’insicurezza di fronte all’omicidio della bambina e il suo bisogno di affermarsi in continuazione sopra gli altri arrivando perfino a umiliare sessualmente una delle vittime maschili costringendolo a fargli un pompino («Io sono per la parità dei sessi: non mi formalizzo!»). E ancora, Sacchi che vomita rancore contro i ricchi («Non sopporto la gente che vive solo per i soldi: ci sono altri valori, come l’amore universale») perché vorrebbe essere uno di loro («Quando riscuoterò il riscatto del tuo paparino, mi farò il bidet con lo champagne tutti i giorni!») e per raggiungere il suo scopo non si ferma di fronte a nulla, neanche all’omicidio della fidanzata che ingenuamente gli chiede: «Oh, Giulio, non avrai mica fatto stronzate?» e lui, spavaldo: «Nooo… ho solo ucciso tre uomini, due donne e un bambino!». Uccide anche i suoi complici, perché ha paura (quella paura che si vantava di non conoscere) di essere scoperto. E, ironia della sorte, il suo folle piano riesce. Sacchi è probabilmente la figura di cattivo più agghiacciante portata sullo schermo in un poliziesco/noir italiano proprio perché è fondamentalmente un debole, un insicuro e allo stesso tempo folle, bramoso e spietato. Milian è bravissimo nel calarsi in questo turbinio di depravazione e incertezze, costruendo sul suo volto una serie impercettibile di tic nervosi, sudando copiosamente per tutto il film e piagnucolando come un bambino quando il suo personaggio finisce tra le grinfie della polizia. Nonostante in seguito Milian darà corpo a altre figure di cattivi più o meno significative (per il genere e per la sua carriera) come il Gobbo di Roma a mano armata o il capitano del SID di La polizia accusa, il servizio segreto uccide, quella di Giulio Sacchi è una figura unica, inarrivabile, perché dietro quegli occhiali da sole si nascondono occhi senz’anima.