Nine dead
2010
Nine Dead è una curiosa copia carbone del quinto capitolo di Saw: privo della complessità tematica e della raffinatezza dell’Enigmista, il film dell’esordiente Chris Shadley è una pièce de thétre troppo verbosa per potersi definire cinema.
Nove persone vengono rapite da un uomo mascherato e trasportate in uno scantinato buio e senza finestre. Gli uomini non si conoscono, sono ammanettati a delle sbarre di ferro e ogni dieci minuti, a meno che non confessino un crimine vergognoso che avrebbero commesso, uno di loro finisce ammazzato a revolverate. In principio è il panico, ma quando il numero dei morti si fa insostenibile e il tempo sta per scadere anche per i pochi sopravvissuti, l’amara verità viene a galla: ognuno dei “partecipanti” ha più o meno involontariamente contribuito alla morte di un ragazzo, chi per negligenza, chi per denaro, chi per sete di successo. L’idea non era male, cioè stabilire le coordinate di un esperimento sociale sulla mancanza di comunicazione. I prodromi vengono indubbiamente dal quinto capitolo dell’Enigmista, quello in cui i disperati protagonisti, legati tra loro per mezzo di un collare collegato a un timer e a dell’esplosivo, dovevano combattere il proprio naturale istinto di sopravvivenza e collaborare tra loro per scampare a una morte certa.
Nel film di Chris Shadley (uno dei tanti tecnici da sottobosco hollywoodiano che esordisce alla regia di un film indipendente) le cose vanno più o meno così, nel senso che ci sono nove persone ammanettate che, per sfuggire alla condanna capitale, devono confrontarsi tra di loro e comprendere che cosa le accomuna. Ovviamente non si tratta di una chiacchierata da salotto, quanto di un’attenta e certosina ricostruzione di alcuni fondamentali avvenimenti passati, episodi periferici, subordinati alla quotidianità dei nostri anti-eroi e che pertanto, almeno in larga misura, sono capitombolati nel dimenticatoio. Ma che da lì fremono, pungolando e stimolando una memoria sempre vigile ma costretta nelle gabbie della vergogna. Così c’è l’ex-detenuto pedofilo che violentava i compagni di cella, l’avvocata in carriera, l’agente assicurativo e via discorrendo, un campionario umano troppo variegato per trovare un minimo comune denominatore. Forse.
Ogni dieci minuti il misterioso rapitore entra nella stanza e chiede perché il gruppo si trovi lì riunito, e dinnanzi alla reticenza degli astanti, uno di loro è destinato a morire. Con l’acqua alla gola, i superstiti tentano di mettere da parte malumori e ripicche personali, e di collaborare per giungere alla soluzione dell’enigma. Così gli indizi, dapprima sporadici e lacunosi, si incrociano e si intrecciano fino a quando si delinea il profilo di una vittima: un ragazzo che, a causa di un ingiusto processo, ha pagato con la vita un reato di lieve entità.
Il film funziona soltanto per quella metà mutuata dalla saga di Jigsaw (il rapitore mascherato si rivela persino il sosia di Tobin Bell), perché per il resto è soltanto un lungo chiacchiericcio interrotto giusto da qualche discontinua scena di violenza. Tra un omicidio e l’altro, del tutto privi della “creatività” stilistica che ha reso celebre la saga di James Wan, i protagonisti se ne stanno immobili a parlare, discutere, trattare, ora con rabbia, ora con disperazione, ma sempre con quella prolissa insofferenza di chi ha fretta di riempire la sceneggiatura. Insomma, per i circa novanta minuti di proiezione non succede nulla, e a parte una specie di twist finale, talmente assurdo da risultare (quasi) cosa gradita, Nine Dead parrebbe più una pièce de thé‚tre che un esempio di cinema. Un po’ poco per scaldare gli animi.