Non lasciarmi
2010
Non lasciarmi è un film del 2010, diretto da Mark Romanek.
Prima prova veramente gestita in autonomia da Romanek che, uscito con le ossa rotte dal set di Wolfman, per i continui litigi con gli attori, trova una seconda chance nella trasposizione cinematografica del delicato e toccante romanzo di Kazuo Ishiguro.
Prova superata a pieni voti e non poteva essere diversamente per uno che a nove anni era rimasto profondamente colpito, stordito, straniato dalla visione di 2001: Odissea nello Spazio e che, rivisto nel 1973, lo aveva definitivamente convinto ad intraprendere la carriera di regista. E del maestro Kubrick vi è nella sua opera una sorta di essenza chiave, una pietra angolare che fa riferimento all’indagine sulla condizione umana che Non lasciarmi, rimette prepotentemente al centro. Riaccendendo quel tanto vituperato vizio di porre sotto la lente le domande, mai le risposte.
Insomma, qui non fioccano saette laser e non fischiano lucenti astronavi, così come non luccicano al sole stanche uniformi prese in prestito dal Terzo Reich, eppure la narrazione debole, quasi post metafisica, tiene in piedi un’architettura fortemente distopica e tagliente. Anzi, sarebbe più corretto parlare di ucronia, visto che i tempi rappresentati potrebbero essere un fosco e malinconico presente. Virato al grigio, ai toni soffusi della campagna inglese fotografata da Adam Kimmel e dalle scenografie di Mark Digby, lo stesso di The Millionaire.
Di quali interrogativi stiamo parlando? Tutti quelli esistenziali rilevanti: deriva del progresso scientifico, senso dell’amore, dell’amicizia, dell’espressione creativa del singolo, esaltati e messi in controluce dalla traccia narrativa di fondo. La clonazione. E riassumiamo così: una vita mutilata dell’io, della possibilità di esprimersi, in definitiva privata dell’identità, val la pena di essere vissuta? Provano a rispondere tre ragazzi (Carey Mulligan, Andrew Garfield, Keira Knightely) nati e cresciuti in un austero college, Hailsham, che sperimentano amicizia e amore, con un trasporto a tratti edulcorato, con un senso di sterilizzazione dei sentimenti, perché scopriranno che sono degli orfani particolari, ovvero cloni destinati a essere utilizzati come parti di ricambio per altri esseri umani.
Che valore ha dunque la loro vita? Qual è il peso specifico del loro essere? Riuscirà a equilibrare il freddo calcolo del progresso scientifico? Via via che gli vengono espiantati gli organi i loro corpi si debilitano, inevitabilmente avviati alla morte allo scoccare della terza donazione. Non così per i loro spiriti, che invece proprio sul finire paiono ritemprati dalla scoperta che anche a chi per definizione nasce senza identità, a chi è copia, è concesso innamorarsi. E’ così che i due protagonisti decidono di andare a far visita alla misteriosa “Madame” (Nathalie Richard), per chiedere una proroga al proprio terribile destino, in funzione del sentimento che li unisce. Lei comprende, gli racconta che quei disegni che facevano da bambini avevano un senso preciso (che non sveleremo), ma le vie della scienza non sono infinite, anzi…
In fondo, cloni o originali, artificiali o di sangue e ossa, chi di noi potrà mai affermare con certezza di aver vissuto abbastanza? E questo piccolo intervallo nell’infinito quanto è pieno, come misuriamo la sua densità? Basteranno le emozioni a renderci qualcuno, anziché pezzi di qualcosa?