Not Forgotten
2009
Dror Soref dirige un thriller-horror di confine: l’America moderna e opulenta lascia il posto a un Messico superstizioso e primitivo, intriso di incantesimi e magia nera
L’intensità di Not Forgotten sta proprio nel suo essere un prodotto di confine, nel rappresentare, per così dire, l’incontro e lo scontro tra due culture: quella americana, opulenta, moderna e scettica, e quella messicana, antitetica e viscerale, carnalmente radicata in un immaginario sincretico e animistico, tutto pullulante di rituali vudù e cerimoniali da santeria cubana. Sembra che non ci sia modo di far convivere due mondi tanto diversi, e invece il film di Soref ne raffigura l’agghiacciante e contraddittoria sintesi. I suoi personaggi, cittadini americani “perbene” ma con svariate macchie ad ombreggiarne le coscienze, si muovono in un girone western fatto di saloon, puttane, droghe e criminalità. Da un lato la lezione iperrealista e tendenzialmente deformante di un Duane Hanson o un Ron Mueck, con quelle donne sfatte, i transessuali imbellettati di biacca, i loro ghigni da satanassi e i narcos baffuti dalla pelle grassa, sudata e oleosa. Dall’altro, la longa manus dell’occultismo, la ballata macabra di streghe, maghe e fattucchiere.
Simon Baker (Il diavolo veste Prada, La terra dei morti viventi) è un tizio nerboruto e arrabbiato che spacca tutto quello che incontra pur di ritrovare la figlia. In condizioni di pericolo, appende il suo abito borghese e indossa quello del trafficante, e in una scena raggiunge la poesia: per far parlare un delinquente, comincia a torturarlo con i cocci di una bottiglia. Quello si rifiuta di “cantare”, e pian piano il suo volto diventa una poltiglia rossastra, fino a quando il collo dell’arma non gli squarcia la gola e lo spedisce al creatore. Da brividi.
Eppure. Già, eppure. Eppure c’è qualcosa che non quadra, che manca, che lascia Not Forgotten incompleto. Non sembra un problema di sceneggiatura, piuttosto una carenza registica. I protagonisti vivono, ma non brillano, la scena finale (il rituale con le galline sgozzate) sa un po’ di baracconata con tutte quelle maschere che fanno il verso all’ultimo Kubrick. C’è anche Paz Vega, quella di Lucìa y el sexo, qui nella parte di una madre che però ha molto da nascondere. Il giudizio complessivo è più che positivo, ma tolta la generale atmosfera, con i suoi affreschi, i suoi colori satanici e sgargianti al tempo stesso, resta l’inquietante esitazione dell’inizio. La mano del regista non si vede, se non in qualche scena come quella della bottiglia, a quel punto ci si consola con la confezione.