Orfeo 9
1973
Orfeo 9 è un film del 1973, diretto da Tito Schipa Jr.
… E gli fu così concesso di ricondurla con sé, nel regno dei vivi, alla sola condizione che durante il viaggio verso la Terra non si voltasse a guardarla fin quando non fossero arrivati alla luce del sole. Ma durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella mente di Orfeo pensando di condurre per mano un’ombra e non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì…
Date un’occhiata al sito di Orfeo 9, in Rete, e avrete immediata la sensazione che entrare nei suoi meandri sia come visitare la cattedrale di Chartres al tramonto, mentre il sole esplode dai rosoni alchemici; o seguire il filo di Arianna nel labirinto di Creta, o vagare per i sotterranei di Parigi. Non passa invano, Orfeo 9, certo che no. Eva Axén – colei che tutti conoscono per essere stata eternata dalle prime pugnalate di Suspiria – ci è rimasta sotto, invischiata nel profondo: se è vero come è vero che ha chiamato sua figlia Euridice, col nome, cioè, del personaggio che interpreta nel film. Orfeo 9 è un’opera rock. La prima opera rock italiana. E la prima opera rock mai rappresentata al mondo, il 23 gennaio 1970, al Teatro Sistina di Roma. Autore e interprete principale ne è Tito Schipa jr., figlio del tenore Tito Schipa. Lui con altri giovani talenti (Virginie, Alberto Dentice, Simon Catlin, Monica Miguel… una miscellanea di persone provenienti da oltre dieci nazioni diverse), ma lui più degli altri. Librettista, musicista e regista oltre che attore centrale, nel ruolo di Orfeo. A teatro come poi in pellicola. Cercate nel sito, nella rassegna stampa, ciò che scrissero le recensioni dopo lo spettacolo al Sistina. Piero Vivarelli su Playmen o Vittorio Pescatori su ABC, che stralciamo nel suo incipit: Preghiere e luci psichedeliche, canti gregoriani e inviti allucinogeni nell’ultimo spettacolo di gruppo con happening finale (“e se qualcuno vuole anche spogliarsi, sono fatti suoi”). Orfeo 9. Nove – per i più prosaici – perché era la nona volta che il mito di Orfeo veniva messo in musica, dopo Monteverdi, Gluk, Bach, Haydn, Liszt, Casella, Stravinsky, Offenbach. Nove – per i più esoterici – perché si tratta di numero perfetto, perché nove è l’energia antichissima del femminile, perché simboleggia al contempo il fiorire e il decadere di tutte le cose, l’eterno ciclo della vita e della morte. Nove come il teth ebraico, il geroglifico della solidità, del tetto e dello scudo… e si potrebbe continuare all’infinito, anche proprio nel senso dell’infinità, il cui simbolo, l’”otto disteso”, occhieggia, enfatizzato, nell’architettura mistico-surreale dell’Orfeo di Tito Schipa jr. messo su pellicola nel 1973.
Era andata così: che Orfeo 9 dopo la vita teatrale, diventò un doppio album nel 1973, vendutissimo: l’unico doppio italiano che per trent’anni non ha mai cessato di vendere e non è mai uscito di catalogo nemmeno per un giorno, giungendo, al momento attuale, a sei edizioni diverse tra LP, musicassette e CD. Un record. Sempre nel 1973, la Eidoscope di Mario Orfini e Emillio Bolles e la Mount Street di Ettore Rosboch lo produssero in forma di lungometraggio per i programmi sperimentali della Rai. Girato in 16 millimetri con una Arriflex e poi “gonfiato” in 35, secondo le migliori regole della cinema da battaglia, da trincea, di quegli anni bui e meravigliosi. Ma alla Rai scoprirono di essersi portati in casa lo scandalo, che l’Orfeo 9 di Schipa jr. gli avrebbe recato solo guai. Il piissimo Bernabei tremò e la sorte del film si fece oscura, votata al solo culto sotterraneo da parte dei suoi numerosi adepti, dopo essere stato trasmesso, quasi di soppiatto, soltanto nel 1975. Facce dipinte, striate di colore, imbiancate. Oppure scomposte, in un’esplosione di piccole tessere di mosaico. Il lessico famigliare del cinema pop-surreale dei Seventies. La realtà oltre l’apparenza o il sembiante nascosto delle cose, della gente. Eppure non bisogna equivocare, perché Schipa jr. portò in pellicola il suo Orfeo 9 con un senso della misura encomiabile. Non eccedendo nelle astrazioni psichedeliche, “pop”, che pure caratterizzano con forza questa rilettura del Mito, piegata flessibilmente, come un giunco, a descrivere un apologo che investe la libertà, la poesia, il sogno, la necessità di non lasciarsi integrare, comperare, redimere. L’immagine più folgorante sono un paio di occhi dipinti sulle palpebre del protagonista. Era lo stesso 1973 in cui la disperata Verushka nel film omonimo di Franco Rubartelli si tracciava a matita altri occhi sugli occhi. Forse a significare che ogni sguardo esterno è posticcio e che il raggio visivo vero procede in senso opposto, verso la buia luce dell’interiorità: è pura introiezione, rivelazione dal di dentro.
Orfeo, Schipa, incontra Euridice, Eva Axén, in una chiesa abbandonata e sconsacrata, dove ha sede una comunità hippy. Poi però la perde per via del morso di un serpente in figura, un venditore di paradisi artificiali che ha i tratti di Renato Zero vestito un po’ come il Cappellaio Matto di Alice. E se per molti l’appeal del film si sunteggia nella sola presenza di Zero o di Loredana Berté, a noi ammaliano piuttosto il volto e la voce di Penny Brown, che insieme alla Berté e a Roberto Dentice svolge il compito di narratrice – i fulciani capiscono e tanto basta. Gli inferi in cui cercare Euridice perduta, saranno i bassifondi di una città industrializzata, gironi dalle tinte ocra e rossastre. Il fantastico di un’opera simile è che potrebbe avere più sfumature del piumaggio cangiante del pavone, senza possederne nessuna precisa; o meglio, contemplandole tutte quante, allo stesso tempo. Secondo il magnifico equivoco che sta in fondo alla base di tutta l’arte moderna. E anche della filosofia sublime del bis, che è la nostra. Puoi far diventare tutto, tutto ciò che vuoi… In genere i film musicali non sono fatti per chi ama il cinema e vale anche il contrario; ma Orfeo 9 ci sembra eccezionalmente in linea con una forma mentis cinematografica che è molto più intimamente nostra di quanto non lo siano un sacco di ciofeche “di genere” che spesso ci troviamo costretti a farci piacere. Una rivelazione sulla Via di Damasco.