Paradise Hills
2020
Paradise Hills è un film del 2019 diretto da Alice Waddington.
In un costante dibattito fra estetica e sostanza, che mai probabilmente eleggerà un reale vincitore, sono molti i filmmaker che hanno lasciato prevalentemente alle immagini il compito di portare avanti una storia. Nel bene, e naturalmente nel male, i risultati sono stati tanto altalenanti quanto sfarzosi, a volte intriganti e suadenti, a volte soporiferi e inutili. Paradise Hills, che nonostante il cast anglofono è una produzione spagnola, si muove fra specchi, giardini colmi di rose, bianchi abiti e La fabbrica delle mogli di Bryan Forbes (1975). La regista, Alice Waddington, al suo primo lungometraggio e in veste di sceneggiatrice insieme a Nacho Vigalondo e Brian DeLeeuw, imbastisce un thriller che dal sottotesto di critica sociale arriva alla fiaba distopica, cavalcando l’onda del femminismo in una sorta di The Prisoner young adult. La storia di Uma (Emma Roberts) porta infatti lo spettatore a scoprire un’isola dove le ragazze altolocate vengono segregate dalle loro famiglie, per essere trasformate in donne perfette. O perlomeno perfette secondo la loro distorta concezione.
Alice Waddington mette questa società simil “Neo-Vittoriana” nelle mani della Duchessa, una Milla Jovovich sorniona e inquietante, che nasconde peste e corna dietro melliflui sorrisi. La chiave di lettura femminista corre feroce ma senza, per una volta, incolpare il patriarcato o il maschio di turno, bensì posizionando nel ruolo dell’antagonista tanto le famiglie, con una figura materna che Uma rifugge, quanto la Duchessa, morbosa matrona. Apprezzabile il tentativo di scansare un banale, seppur realistico, stereotipo; tuttavia Paradise Hills cade in un’insidia ben peggiore. I dettagli ricercati, i costumi studiati fin nella più piccola cucitura, i letti colmi di cuscini e le particolarità art déco apprezzabili in certe scene, ogni cosa è pensata e strutturata con una cura per la forma che rasenta la perfezione estetica. Ed è qui, nell’iper-estetizzante resa visiva, che si resta stupiti e incantati, abbagliati da un’incredibile capacità di mostrare, di stupire gli occhi con il candore delle vesti e i colori pastello, in una resa cromatica mai casuale, ma sempre metaforica.
Non si resta però abbastanza abbagliati o stupiti da non notare quanto dietro l’estetica si celi un’essenza piuttosto superficiale. La fiabetta, racconto di formazione a tinte scure, il canovaccio è quello, si veste di tutto punto, ma non riesce mai a rendere interessanti tutti i buoni spunti che possiede, incapace di dare sostanza a una narrazione che presenta a tratti un po’ di forzature. La sceneggiatura non riesce a caratterizzare adeguatamente i personaggi, compressa forse in un minutaggio che non è in grado di sfruttare realmente, lasciando la sensazione che l’evoluzione e le relazioni fra le protagoniste rimangano allo stato epidermico. Insomma, Paradise Hills è probabilmente destinato a dividere, fra coloro che forse lo definiranno vuota masturbazione e quelli che invece applaudiranno una visione immaginifica incantevole. La verità è nel mezzo, in genere si dice così, ma questa volta la questione è più semplice: se volete una storia adolescenziale, esteticamente deliziosa e dall’impalcatura visiva appagante, è il film che fa per voi. Se invece cercate una narrazione più profonda, capace di sviluppi ed evoluzioni, allora è meglio veleggiare verso altri lidi.