Pearl
2022
Pearl è un film del 2022, diretto da Ti West.
Nessun posto è bello come casa propria! Che sia una ridente baracca baciata dal caldo sole virato in seppia del rustico Kansas in piena Grande Depressione, piuttosto che una sperduta fattoria immersa fra i filari del desolato Texas adombrato dalla febbre spagnola e dagli ultimi lontani rigurgiti della Grande Guerra, la dimora rappresenta il familiare e confortevole rifugio nel quale ritrovare sicurezza, stabilità e, cosa più importante, sconfinato amore. Un idillio, per lo più illusorio, che tuttavia non sembra affatto garbare all’irrequieta Pearl (Mia Goth), giovane figlia di immigrati tedeschi costretta a dividere le proprie monotone giornate fra l’accudimento del bestiame, l’assistenza a un padre miseramente infermo (Matthew Sunderland), le angherie di un’anaffettiva e dispotica madre-padrona (Tandi Wright) e la costante preoccupazione per il povero marito Howard (Alistair Sewell) disperso fra i fuochi delle trincee europee. Così come la trasognata Dorothy protagonista del celeberrimo Mago di Oz, infatti, la nostra fanciullina in salopette continua a fantasticare di una magica evasione che le possa permettere un futuro di gloria e lustrini lontano dalla miseria di questa bucolica vita. Pearl confessa i propri sogni di starlette in erba alle pazienti vacche, senza rinunciare a rapide sortite al suo personale Lake Placid per nutrire, con prelibata carne d’anatra o di ben altro genere, il suo fidato alligatore domestico, forse in attesa di possedere anche lei Quel motel vicino alla palude. Ma ecco che un giorno l’occasione di tutta una vita si presenterà alla nostra sotto forma di un inaspettato casting che potrebbe consacrarla a nuova divetta dell’ancora primordiale cinematografo, a patto ovviamente di possedere, oltre al tanto agognato X Factor, una sana e sostanziosa dose di coraggio e faccia tosta con cui vincere la resistenza degli opprimenti genitori e poter finalmente gridare ai quattro venti che, sì, A Star is Born!
Se le pruriginose atmosfere di X: A Sexy Horror Story pescavano a piene mani dal polveroso immaginario grindhouse anni ’70 figliastro della stirpe dei Craven e degli Hopper, questo altrettanto disturbante prequel – interamente dedicato alla problematica giovinezza di quella inquietante vecchiaccia sporcacciona e assassina entrata a tempo record nel vasto Pantheon delle immortali maschere dell’orrore – non può che sguazzare felice fra i colorati e apparentemente spensierati lidi del grande cinema classico hollywoodiano dei gloriosi anni ’30, 40’ e ’50, dipingendo una più che mai fittizia Casa nella prateria all’ombra di un abbacinate sole campestre nel quale la genesi di questa radiosa novella Lizzy Borden può dispiegarsi in tutta la sua sanguinosa magnificenza. Ed è infatti con un palesissimo richiamo ai celeberrimi fordiani Sentieri selvaggi che Ti West sceglie, letteralmente, di aprire le diroccate porte di legno di questo suo Pearl, immergendoci in un bucolico universo imbellettato dai fronzoli e dagli svolazzi di farfallosi titoli di testa che richiamano a gran voce gli zuccherosi melodrammoni agé di George Cukor e Douglas Sirk. Un autentico mondo da cinematografo sotto il cui multicolore tappeto cova tuttavia un dilagante marciume che inizierà ben presto a spurgare i suoi letali miasmi attraverso tanti piccoli indizi che, a cominciare dallo spettro di un aborto tanto desiderato quanto mai veramente metabolizzato, andranno progressivamente a corrompere la già precaria purezza e sanità mentale della nostra trasognata Rossella O’Hara armata di ascia e forcone. Schiacciata dal peso delle proprie stesse ambizioni di gloria, in un mondo dominato dalla sofferenza e dalla cattiveria, la nostra amata Pearl, non potendo più contare sul salvifico riscatto riservato alle eroine in bianco e nero del grande schermo da lei stessa idolatrate, dopo aver visto miseramente infranto il suo personale sogno musicale alla Mary Poppins si troverà a dover combattere con le unghie e con i denti contro i demoni che albergano nella sua stessa mente distorta, lasciandosi andare a lascive insidie sessuali ai danni del paralitico paparino e buttando alle ortiche ogni residuale buon proposito.
Tutti evidenti segnali di una latente e malsana follia che non potrà che esplodere in tutta la sua sanguinosa potenza nel corso di un finale che, lungi dal voler ricalcare la truculenza a grana grossa che formava l’ossatura portante di X, pur senza rinunciare a una sana dose di grafico corporis dolor sceglie sapientemente stavolta di affidarsi quasi interamente alle straordinarie capacità interpretative di una Mia Goth qui forse nel suo stato di massima grazia attoriale, capace di sviscerare, tra le lacrime di un tesissimo monologo di quasi dieci minuti, i mille scheletri nascosti fra gli oscuri meandri del proprio delirante personaggio, giusto poco prima che i titoli di coda le si stampino su di un volto scheggiato da un forzatissimo e inquietante sorriso. Ma a differenza della tosta Maxine che, assieme alla sua sgangherata troupe casereccia, varcherà incautamente le porte di quella stessa isolata fattoria di lì a sessant’anni per lasciarsi andare anch’essa a una grassa dose di pruriginoso divertimento a favore di cinepresa, nonostante le improvvise pulsioni erotico-omicide la nostra Pearl è essenzialmente una ragazzotta insicura e bisognosa di conferme, le quali potrebbero provvidenzialmente giungere tanto da un affascinante proiezionista (David Corenswet) quanto dalla premurosa cognata Misty (Emma Jenkins-Purro). Se tuttavia il primo, iniziando la nostra tutt’altro che casta My Fair Lady alle solleticanti e proibite meraviglie dell’ancora acerba cinematografica hard attraverso la proiezione del seminale A Free Ride – profetizzando per altro la futura esplosione del settore –, resosi conto troppo tardi delle numerose rotelle fuori posto della sua nuova fiamma finirà per cadere sotto il peso della di lei sanguinaria vendetta. Sorte non molto diversa toccherà anche alla seconda, rea, come in futuro sarà per la porno divetta Bobby Lynne, di essere semplicemente bionda e piacente, responsabile per lo più indiretta dello sgretolamento di un sogno a tempo di musical destinato a decomporsi. Ma d’altronde, come il buon Ti West sembra volerci insegnare, la strada che conduce alla mitica Città di Smeraldo non è lastricata solo di mattoni gialli e buoni sentimenti, quanto piuttosto di quella calda e purpurea emoglobina pronta ad imbrattare per bene le scarpette della nostra Pearl ben prima che i loro tacchi battano tre volte gli uni contro gli altri.