Piercing
2018
Piercing è un film del 2018, diretto da Nicolas Pesce.
L’amore e la violenza corrono su un binario dirottato, esplodono appena l’impatto arriva al culmine. La tortura, la sopraffazione è ciò che porta al momento in cui tutto detona. Asami, la giovane protagonista di Audition, film cult di Miike Takashi, si rivelava nella sua vera natura munita di guanti neri, siringa e sega a filo, gioiosa di poter esercitare, sull’uomo che amava, il potere che si può avere solo su una persona completamente inerte. “Le parole creano menzogne, ma del dolore ci si può fidare”, così parlò Murakami Ryu (Tokyo Decadence), dal cui omonimo romanzo venne tratto Audition e la cui opera rivive anche in Piercing – secondo film dopo The Eyes of my Mother – diretto dall’emergente regista americano Nicolas Pesce e proiettato a novembre dell’anno ormai passato al Torino Film Festival, nella sezione After Hours. Il protagonista del film si chiama Reed (Christopher Abbott), felicemente sposato e neo-papà: l’apparente perfezione della sua esistenza è però contrassegnata da un malessere profondo, fatto di silenzi e impulsi fino a quel momento repressi. «Tu lo sai cosa devi fare, vero?», gli “sussurra” la neonata che tiene in braccio, vox mentis che comunica l’inderogabilità della “fuoriuscita dalla coscienza nel mondo fisico”, sempre citando Murakami. Come la signora Vorhees, nella sua testa rimbomba l’ordine «Kill! Kill! Kill!».
Reed, come serial killer, è estremamente cerebrale: riflette, prende appunti, fa le prove generali, cronometra. Siamo nell’epoca del postmoderno, tutto è già stato fatto da altri; ecco dunque l’identikit della vittima ideale: una donna, prostituta, che parli inglese e che pratichi sadomaso, togliendo all’aguzzino la difficoltà iniziale della costrizione forzata. Ma chi c’è nel vano ascensore, in ascesa verso questa imboscata finemente studiata? Jackie, interpretata da una Mia Wasikowska ormai in odore di iconicità, una vittima fin troppo inconsapevole, poiché animata da pulsioni non troppo dissimili da quelle della sua malcapitata controparte. Si, proprio così, sfortuna vuole che ad un killer in erba fin troppo mentale capiti una candidata vittima per niente candida, anzi, ferrata e pragmatica. Ecco che, nel precipitare degli eventi, comincia una macabra commedia degli equivoci dove la mente di Reed si arrampica alla ricerca di un piano B: portare a termine il compito prefissatosi stando però al gioco di colei che lo conduce.
Da qui fino al bellissimo finale, tutto ambientato nell’appartamento di Jackie, il film vira su un tipo di romance non troppo dissimile da quella de Il filo nascosto, con tanto di identica battuta di chiusura, contraddistinta anche da allucinazioni visive e oniriche. Piercing è un film formalmente ineccepibile, arricchito da bellissimi interni e dai modellini di grattacieli che fanno da sfondo freddo e desolato all’azione in esterni e che evidenziano in modo ancora più marcato la solitudine dei due protagonisti. Pesce non si vergogna di evidenziare, anche se a volte in maniera troppo gratuita ed ovvia, la propria cultura cinematografica, ad esempio costellando la pellicola di brani del nostro cinema di genere, dai più ricercati Stelvio Cipriani e Bruno Nicolai ai più mainstream Goblin (i temi di Profondo rosso e Tenebre). Con stupore però, il connubio musica-testo riesce, sostenuto da una scenografia che rammenta gli appartamenti dei palazzi argentiani e dalla psicologia della storia. Nicolas Pesce ha meno di trent’anni e un futuro roseo davanti a sé, che prevede già un reboot di The Grudge: aveva la nostra attenzione, ora ha la nostra curiosità.