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Planet B

2024
REGIA:
Aude Léa Rapin
CAST:
Adèle Exarchopoulos (Julia Bombarth)
Souheila Yacoub

Il nostro giudizio

Planet B è un film del 2024, diretto da Aude Léa Rapin.

La vera prigione, in fin dei conti, è quasi sempre la nostra mente. Questo in soldoni il nietzschiano insegnamento che la talentuosa Aude Léa Rapin sembra volerci sottilmente impartire con il suo Planet B; riprendendo, forse del tutto inconsapevolmente, quella medesima fantascientifica intuizione distopica con cui il nostro Alberto Mascia ci aveva già recentemente inquietati attraverso il cupissimo Ipersonnia. Se, infatti, in un sorprendente esordio come quello di Gli eroi non muoiono mai il perturbante tema della reincarnazione – o possessione, a seconda dei punti di vista – diveniva in realtà un metaforico MacGuffin attraverso cui sviscerare ben altri e alti argomenti, con questa sua futuribile ma più che mai attualissima opera seconda la coraggiosa cineasta franco-belga – pronta ad aprire la Settimana Internazionale della Critica a Venezia 81 – utilizza lo specchietto della sc-fi per attirarci come allodole verso un più ampio universo di discussione; nel quale ecologismo, lotta di classe, terrorismo, censura di Stato e immigrazione si fondono in un corpus narrativo che utilizza l’allegoria di un ipotetico oscuro domani per parlarci, invece, di un altrettanto possibile e terrificante presente. Un presente, quello della nostra fragile Europa di fine 2024, che potrebbe tranquillamente tramutarsi in un batter d’occhio nel caotico 2039 di un’impoverita Francia sotto legge marziale, nella quale, proprio a seguito del fallimento dei cari vecchi accordi climatici di Parigi, un gruppo di ecoterroristi denominato R pare intenzionato a gettare l’intera società nella più selvaggia anarchia.

Ed è proprio nel mezzo di questi caldissimi venti di contestazione che la giovane Julia (una sempre bravissima, bellissima e tostissima Adèle Exarchopoulos), rimasta gravemente ferita durante una rischiosa azione di sabotaggio, si ritroverà improvvisamente catapultata, assieme ad un gruppo di disorientati compagni di sventura, all’interno di una misteriosa realtà simulata denominata, per l’appunto, Planet B. Una prigione virtuale, insomma, apparentemente simile al rassicurante panorama di un resort caraibico ma in realtà concepita come strumento di detenzione e raffinata tortura psicologica con l’intento di spingere i nostri sprovveduti sleepers a fornire informazioni sensibili per smantellare una coeva cellula sovversiva pronta a colpire nientemeno che a Grenoble. Col sopraggiungere di terrificanti blackout capaci di evocare le peggiori paure interiori e di un’inevitabile reciproca diffidenza dettata dal sempre più labile confine tra sogno e realtà, questi poveri prigionieri di un profondissimo Koma dovranno cercare un modo per evadere dalla propria gabbia dorata, potendo contare solamente sull’inaspettato ed indiretto aiuto della sfuggente Nour (Souheila Yacoub), giornalista irachena fuggita dal letale bavaglio del proprio paese ed entrata casualmente in possesso di un preziosissimo visore con cui accedere al letale universo di questa Matrix – o, meglio ancora, al cuore oscuro del Cube – che si cela, forse, nei meandri di un segretissimo Tredicesimo Piano.

Attingendo a piene mani da quella suggestiva Teoria della Simulazione – a sua volta evoluitasi dall’imprescindibile caverna platonica – che parecchio ha dato da campare ad un certo cinema di genere, Planet B non ha nessunissima paura a giocare, per l’appunto, proprio con l’essenza e le potenzialità dei generi stessi; alternando echi action alla Minority Report ad una decadente patina thriller-noir in odor di Blade Runner piuttosto che ad un brumoso sottotesto sociale ben memore di certa fantascienza anni ’70, concedendosi addirittura sporadici echi orrorifici che, per mood ed immaginari, non possono che evocare seduta stante l’inevitabile spettro di Lost così come i brividi in pieno sole dello shyamalaniano Old. Ed è in effetti un mondo più che possibile – forse addirittura memore dei tarkovskijani Possible Words di Robert Lapage – quello dipinto da Aude Léa Rapin. Un mondo dove QR code di contrabbando, custodie cautelari in realtà aumentata e la scomparsa di qual si voglia privacy o stato di diritto costituiscono l’humus entro cui due (anti)eroine segnate dai traumi e dai segreti di un torbido passato avranno modo di conoscersi, aiutarsi e, forse, persino amarsi. Certo, non sarà forse il migliore dei mondi possibili, né tantomeno un mondo così originale. Ma, come si suol dire in questi casi, è pur sempre l’unico mondo che abbiamo, no?