Possum
2018
Possum è un film del 2018, diretto da Matthew Holness.
Per anni il buon compagno Mao se n’è andato in giro a sostenere che la rivoluzione, qualunque essa sia, non puo’ e non deve essere un pranzo di gala. A maggior ragione, dunque, il cinema – quello vero – non può e non deve essere in alcun modo accomodante. Una lezione che certo Matthew Holness sembra aver assorbito più che egregiamente, almeno stando a quanto ci dimostra quel visionario, grottesco e inquietantissimo oggetto cinematografico di Possum, un esordio al lungometraggio fra i più folgoranti e potenti del panorama indie contemporaneo all’ombra di Sua Maestà Elisabetta II d’Inghilterra. Parlarne è cosa davvero ardua, sia per la natura indecifrabile ed enigmatica di questo thriller psicologico dalle forti venature orrorifiche, che per l’evidente impianto surrealista. Uno schizzatissimo e problematico burattinaio di nome Philip (un Sean Harris da brividi) si trova a dover affrontare gli oscuri fantasmi del proprio tormentato passato, i quali portano le evidenti tracce lasciate da un malevolo patrigno (un laidissimo Alun Armstrong) e da un’inquietante entità di nome Possum, personificata nelle mostruose fattezze di un pupazzo ragniforme tenuto perennemente rinchiuso in una borsa da viaggio. Da qui ha inizio un autentico delirio visivo e sonoro attraverso il quale l’identificazione dello spettatore con la tormentata mente del protagonista si fa via via sempre più serrata, impedendo in ogni modo di distinguere chiaramente la realtà dalle visioni più incubotiche e deliranti.
Non serve aggiungere molto a proposito, poiché Possum, ancor prima che un film da vedere, è sicuramente una straniante esperienza audiovisiva da vivere in prima persona, accompagnati passo passo dall’ottima e caleidoscopica regia di un autore che non mostra alcuna remora o imbarazzo nel nascondere sotto al tappeto i più che evidenti debiti estetici e narrativi verso un nutritissimo bagaglio letterario e cinematografico, le cui radici si piantano saldamente nel più puro sperimentalismo. Ai più attenti, infatti, non mancherà di notare le forti affinità con il criptico surrealismo perturbante lynchiano (richiamato da sequenze degne di un divertissement da videoinstallazione), così come anche i sedimenti della fredda schizofrenia paranoide cronenberghiana (con temi e motivi trapiantati di peso da Spider) e i reflussi delle mostruose allegorie kafkiane, il tutto condito da un deflagrante montaggio dadaista alla Roeg e da un evocativo score di pure sonorità disarmoniche firmato dal collettivo The Radiophone Workshop. Non mancano infine strizzate d’occhio ai sozzi e putrescenti mondi popolati dagli scheletrici pupattoli infantili di Jan Švankmajer e dei Quay Brothers, dove il sottilissimo confine che divide la vita dalla morte è destinato irrimediabilmente a deflagrare su sé stesso.
È certamente cosa non buona e non giusta sforzarsi troppo di voler trovare un senso immediato a ciò che si vede scorrere sullo schermo, poiché solo dopo essersi lasciati trasportare dalle taglienti atmosfere create dalla fotografia di Kit Fraser e dopo aver programmato una seconda o terza doverosa visione, allora e solo allora, forse, la giusta chiave di decriptazione verrà resa disponibile all’attento, fedele e volenteroso spettatore, un film che certamente richiede un impegno ben superiore a quello di un superficiale zapping domenicale. È necessario ritornare con la mente e con gli occhi al misconosciuto Lord of Tears (2013) – curiosamente anch’esso firmato da un ottimo cineasta anglofono come Lawrie Brewster– per rintracciare un’opera d’esordio indipendente così evocativa e stordente, a dimostrazione di come, ancora una volta, il vecchio detto secondo il quale “nella botte piccola sta il vino buono” risulta sempre veritiero e attuale, a maggior ragione se calato in universo cinematografico dove ormai, se non si indossano maschere e mantello, sembra si sia destinati alla totale indifferenza.