Primal Rage
2018
Primal Rage è un film del 2018, diretto da Patrick Magee
È un mistero come saltino fuori questi film, un mistero che però segue un copione sempre uguale, con variazioni minimali che lo rendono alle volte gustoso come una minestra dal giusto condimento. Il regista è un tale Patrick Magee, che scrive e dirige da esordiente, ma che viene dalle tumultuose retrovie della tecnica. Lui, artigiano di cose nobili e meno nobili (c’è un Alien vs. Predator e l’orrido Shallow Ground, di cui si parlò a fondo e immeritatamente bene persino sulle pagine di questa aristocratica rivista), punta al salto di qualità con la regia di Primal Rage, pellicola tecnicamente ben costruita sul bigfoot. È un tamarro da cinema periferico, Magee, perché si prende sul serio finendo col far ridere i polli, ma proprio questa sua stramberia, questo suo parlare di cose alte con pernacchie e scoregge, lo rende un inguaribile simpaticone da bar del circolo: uno di quelli che, in Italia, te li vedi con il bianchino in mano ad affabulare la platea con mirabolanti racconti di mostri spaziali e altri progetti da gente fuori di zucca. Comunque tutto parte da un’idea base, che rimane quella per il tempo che dura la proiezione e si declina in una miriade di trovate bizzarre e piene di corbellerie. Il giovane Andrew Joseph Montgomery, debuttante col fisico al retrogusto di steroidi, esce dal carcere per reati non meglio specificati. È troppo bello per essere cattivo, perciò il pubblico lo prende subito in simpatia. Anche la fidanzata (Casey Gagliardi) non è da meno, bionda, bianca, affusolata come un’atleta di discipline agonistiche. Segue viaggio di rientro a casa tra i lussureggianti boschi del Nord America con breve tentativo di sveltina al margine della strada, una cosa tristissima che si innesta sul breviario del vorrei dartela ma non mi sento pronta (per i curiosi, lui si tira giù il pantalone di mezzo centimetro e le dà un paio di colpi a stantuffo, non si capisce come avvenga la penetrazione con lei che si tiene su le mutande e che, presumibilmente, è asciutta come una trota sotto sale).
Quindi entriamo nel cuore pulsante del film: la coppietta in crisi di astinenza guida per un altro tratto fino a imbattersi nel cadavere mutilato di un tizio. Gli manca mezza gamba, qualche pezzo di carne, un po’ di faccia come se qualcosa lo avesse sgranocchiato. Si vorrebbe chiamare l’ambulanza ma, direte voi, i telefoni non prendono. Invece sì, funzionano alla perfezione, solo che una gragnola di sassi scaturita dalle profondità della foresta si abbatte d’improvviso sui due malcapitati impedendogli di fare granché. Una marocca più grossa di una nutria centra in pieno il belloccio, scagliandolo come un pupazzo oltre il ciglio della strada. Ne consegue inspiegabile rotolamento lungo un pendio, tuffo carpiato da un dirupo di chissà quanti metri, affondo a candela nelle fredde acque di un torrente che scorreva come per caso proprio da quelle parti. La biondina si tuffa con lui per salvarlo, ed ecco che ne escono già asciutti ma con l’inspiegabile desiderio di togliersi i vestiti.
Primal Rage si apre allora ai sapori più profondi, agli odori nascosti, alle puzze che l’abile regista dissimula tra magici momenti al limite del sublime: prima le Georgiche alla vita naturista, quella del buon selvaggio, con i nostri eroi sbracati come nella pubblicità Vigorsol con Adamo ed Eva (o una puntata di Nudi e crudi, fate voi). Quindi l’apparizione bislacca della creatura pelosa, di cui vengono inquadrate giusto le mani come l’inquietante genero di Fantozzi, che però fa delle cose assai curiose, tipo annusare la pozza di urina che la Gagliardi si lascia dietro. È soltanto all’incontro nel sottobosco con una masnada di cacciatori zozzoni, che non hanno alcuna funzione narrativa tranne quella di essere scotennati seduta stante dall’inguardabile bestia, che l’orrore inverecondo si palesa in tutto il suo giullaresco sembiante: quello di uno scimpanzé munito di armatura di corteccia, come un impavido ma sanguinario cavaliere delle foreste vergini, con tanto di frecce e faretra al seguito.
Eppure le sorprese non finiscono qui, Magee cucina a fuoco lento fino a sciogliere la carne, fino ad ammorbidirne le nodosità per renderle appetibili ai palati più esigenti. Tra una testa spatasciata e una mascella divelta da mani scimmiesche, appare persino la strega buona dei boschi: una vecchia dalla faccia raccapricciante di demone, che vive in una capanna piena di pozioni magiche, insetti e alambicchi misteriosi. Ed ecco che per non farsi mancare nulla, il buon regista introduce pure la figura dello sceriffo indiano, ovvero l’anziano saggio perfettamente conscio della futilità delle armi da fuoco di fronte alle creature delle tenebre: per questo, nel corso di uno strano rituale con alcuni pellerossa ubriachi nel ventre di un tepee, l’uomo si bomberà di fumo per abbracciare la sacra rivelazione: un truzzo travestito che balla mezzo nudo in aerea sospensione sopra il fuoco. Primal Rage è ruspante come un gallinaccio, annoia in alcuni momenti ma subito si innalza come il summenzionato truzzo nel radioso cielo dell’epifania: quella che introduce al nulla del pensiero, e che come tale, come nulla profondo e insondabile, trasforma il film in un indispensabile giardino zen.