Psych 9
2010
Psych 9: esordio al lungometraggio per Andrew Shortell con un horror d’ambientazione ospedaliera che tiene sospesi tra sogno e realtà.
Ennesimo epigono dell’ horror di ambientazione ospedaliera, l’esordio al lungometraggio di Andrew Shortell ha delle carte valide da giocare, in particolare un certo talento visivo per i tagli di inquadratura, efficaci nell’esprimere in modo palpabile la distorsione psicologica che aleggia tra i personaggi, e un buon gusto per le atmosfere, importanti per raccontare una storia in cui lo splatter è azzerato e si punta tutto sull’inquietudine e lo spaesamento.
Costretto a girare quasi tutto il film in interni e con pochi attori, come se fosse un Kammerspiel, Shortell sfrutta le scenografie suggestive dell’ospedale abbandonato e retoricamente le mette in parallelo al percorso psichico di Roslyn, che da semplice impiegata all’archivio diventa a stretto giro di posta una paziente come altre da psicanalizzare
Tanto talentuoso nella resa estetica, tanto deficitario però nella gestione stessa della storia. Probabilmente è colpa di una sceneggiatura che gioca molto sull’incerto per suscitare costantemente tensione, ma rendere equivoci i comportamenti di tutti i protagonisti, come si faceva per esempio negli anni ’60 nei gialli di Umberto Lenzi, è un espediente abbastanza facile che si può accettare a patto che gli attori siano capaci di tenere sulle proprie spalle tale portato recitativo: questo film ne è l’ennesima riprova. Se è piacevolmente inquietante ritrovare sullo schermo Cary Elwes, almeno per tutti gli amanti del mondo di Saw (è quello, per intenderci, che si taglia la gamba per sfuggire alla prima trappola di Jigsaw), si rimane francamente imbarazzati dalla resa povera della ex modella Sara Foster nei panni di Roslyn, non riuscendo mai a suscitare la benché minima immedesimazione nei suoi dubbi e nei suoi drammi (ma almeno lascia intravedere un fisico niente male).
Inoltre, pur di competere con i twist finali di film simili, come Shutter Island di Martin Scorsese (tranquilli, nessuno spoiler), si accumula ad libitum troppa carne al fuoco, con lo sconfortante risultato di non comprendere quanto di vero lo spettatore abbia visto, quanto sia stato immaginato, quanto ci sia invece di detection pura. Perché alla fine dei conti, qualunque sia il senso con cui si vuole interpretare la vicenda narrata, si è costretti ad avere a che fare e a superare, per mantenere un minimo di aristotelica sospensione dell’incredulità, enormi buchi di logica.