
Puan – Il professore
2024
Puan – Il professore è un film del 2024, diretto da María Alché e Benjamín Naishtat.
Diretto da María Alché e Benjamín Naishtat, Puan arriva nelle sale italiane il 27 marzo 2025, distribuito da ExitMedia. È una commedia argentina sospesa tra malinconia e ironia, tra il privato e il politico, ambientata in un luogo emblematico di Buenos Aires: Puan, non solo una via o una fermata della metro, ma soprattutto la facoltà, di lettere e filosofia, dove si coltivano le idee. La storia inizia con una morte: quella di un docente stimato, che lascia una cattedra vacante e un allievo spaesato, Marcelo Pena. Professore idealista, crede ancora nella lentezza del pensiero, nel valore della parola condivisa anche con pochi. Ma il ritorno di Rafael Sujarchuk, collega brillante e aggiornato sul linguaggio dell’innovazione, lo costringe a confrontarsi con un modello opposto di sapere. Il film ruota attorno a questo confronto, ma lo supera presto. Quello che pare uno scontro accademico si apre a una riflessione più ampia: sul ruolo dell’università, sulla crisi dell’istruzione pubblica, sul destino della cultura in un paese che cambia. A Puan, l’università non è uno sfondo ma un prisma: rifrange contraddizioni sociali, politiche, economiche. Il sapere non resta protetto nelle aule: scivola per le strade, si sporca, diventa corpo a corpo con la realtà. La regia, con la sua struttura a quadri e l’uso dell’iride per segnare i passaggi, punta a una leggerezza visiva quasi da album illustrato. È una scelta coerente con il tono generale, ma il ritmo non sempre regge: pur durando solo un’ora e quarantasette minuti, il film in alcuni tratti appare più lungo di quanto sia.
Le scene più riuscite sono quelle in aula. È lì che il protagonista si accende e il film ritrova il suo respiro. Non servono spiegazioni: la passione per l’insegnamento si legge negli occhi, nei silenzi, nei gesti. Ma Puan è, prima di tutto, una dichiarazione d’amore alla filosofia come forma di vita. Tra concorsi universitari, assemblee studentesche, burocrazie paralizzanti e disillusione crescente, il film racconta con lucidità la lenta erosione degli ideali pubblici e la fragilità sempre più evidente della fiducia sociale. Si ride, con garbo, soprattutto quando Pena tenta di insegnare filosofia a una studentessa distratta, anziana e sorvegliata da una governante inflessibile. Si riflette spesso, in particolare sul destino della cultura e sul rischio costante di vederla ridotta a spettacolo. E ci si commuove nei momenti più intimi, come l’incontro con la vedova del suo maestro — interpretata con toccante misura da Alejandra Flechner — dove il film raggiunge una delicatezza rara. Marcelo Pena, con la sua goffaggine affettuosa e una dignità fuori dal tempo, incarna un sapere che non cerca applausi, ma significato. Le sue lezioni – tra banchi scrostati e aule semivuote – sono riti di pensiero. Hobbes, Platone, Rousseau non sono nomi da esibire, ma lenti per guardare il presente. Marcelo Subiotto incarna Marcelo Pena con misura e profondità, restituendogli una fragilità silenziosa e una presenza autentica. Non è un eroe, ma un uomo in cerca di orientamento, che affida alla parola la propria dignità e alle domande la propria forma di resistenza. La morte del suo mentore apre una frattura: se non può più insegnare, chi è? La sua trasformazione non è una svolta, ma un lento risveglio: smettere di funzionare, iniziare a vivere. Un’intuizione che affiora a tratti, come quando il figlio, con una semplicità disarmante, gli chiede: “Non dovresti avere dei desideri tuoi invece di seguire quelli degli altri?”
In contrasto, Rafael Sujarchuk – interpretato con sottile carisma da Leonardo Sbaraglia – incarna un’altra idea di filosofia: più brillante, più adattata al presente, ma anche più vicina alla vetrina che al pensiero. Se Pena è radicamento, Rafael è seduzione. Il loro conflitto non è personale, ma culturale: due visioni opposte di cosa può (e deve) essere il sapere oggi. L’università pubblica è ritratta con realismo e affetto: fatiscente, precaria, burocratica, ma ancora viva. Non un’istituzione da idealizzare, ma un luogo fragile dove il pensiero resiste. Non un tempio, ma un cantiere. Manca però un contesto più chiaro della crisi argentina. Il disagio sociale resta sullo sfondo e, per chi guarda da fuori, alcune dinamiche – soprattutto nel finale – perdono forza. Un maggiore equilibrio tra il piano personale e quello storico avrebbe dato al film più coerenza e impatto. Puan è comunque un film necessario. Parla con grazia e rigore di ciò che spesso viene dimenticato: la dignità del pensiero, la nobiltà dell’insegnamento, la possibilità del cambiamento. È una commedia, sì, ma anche un grido sommesso contro l’indifferenza, un inno dolceamaro alla dignità umana. Nel raccontare una piccola lotta accademica, Alché e Naishtat illuminano una crisi collettiva. Il film sfiora un affresco più universale e completo, ma ciò che resta è un messaggio limpido: la cultura, anche se stanca, anche se ferita, ha ancora la forza di interrogarci. Di farci ridere. E, forse, di salvarci.