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Qui non è Hollywood

2024
Titolo Originale:
Qui non è Hollywood
REGIA:
Pippo Mezzapesa
CAST:
Vanessa Scalera: Cosima Serrano Spagnolo
Paolo De Vita: Michele Misseri
Giulia Perulli: Sabrina Misseri

Il nostro giudizio

Ex ante, sulla base di una locandina che era stata diffusa assai poco cautamente, se ne ricavava una malissima impressione, come di alcunché di volgare o dozzinale, col rischio persino di bordeggiare la commedia all’italiana “ultima maniera”, quella fatta da cialtroni e ad altrettanti cialtroni destinata. Poi, non bisognerebbe dirlo ma lo diciamo, il nome del regista, Pippo Mezzapesa, non deponeva a favore di una buona impressione: Mezzapesa come mezza et cetera. Invece, la visione di Qui non è Hollywood ci schiaffeggia e ci insegna che i proverbi, per novantanove volte che valgono, lasciano una minima quota fallita: l’abito non fa sempre il monaco e i nomi non sono sempre e solo, necessariamente, conseguenza delle cose. La serie (quattro puntate) diffusa su Disney+ si rivela ampiamente fuori dal raggio delle inutilità italiote a destinazione cinematografica (si fa per dire) o televisiva. Né tira a fare l’americanata o comunque la “stranierata”. Mezzapesa cala un asso della madonna, davvero inaspettato, che induce primariamente a riflettere che non è il sistema a generare le puttanate di cui siamo circondati e che ci assediano, in Italia. Quanto la mancanza endemica di gente capace di girare. Una rondine non fa primavera, si dirà, tirando in mezzo un ulteriore proverbio o magari, pure “beato il monocolo nel paese dei ciechi”. Fatto sta che Qui non è Hollywood ha dietro qualcuno che gli occhi, bene ed entrambi, li sa usare, perché cose del genere non possono venir fuori a caso. Gli occhi mettono capo a un orecchio, a un pensiero, a gusti e diletti, a uno stile come non se ne sperimentavano da un pezzo, né qui né fuori di qui.

Sarah Scazzi, quindicenne di Avetrana, ammazzata il 26 agosto 2010. Strangolata con un laccio e gettata in un pozzo tra i campi di quella Culonia. Là, a galleggiare nell’acqua sotterranea stagnante, finché lo zio non sputa la verità (la verità?), di fronte a un crocefisso che va imputridendo sotto i suoi occhi, su una parete marcia, mentre un magistrato (che tutti chiamano “Il vampiro”) lo sta interrogando. Alle spalle di quel Cristo appeso, un verde acquoso si fa sempre più ominoso e incombente. La coscienza che acquista ridondanza fisica? Magari anche quello, forse, ma c’è dell’altro là dentro, in quella sequenza che è solo una tra le molte del genere che costellano le quattro ore di Qui non è Hollywood. C’è qualcosa che ributta violentemente e piacevolmente indietro nel tempo, che poco o niente ha a che fare col true-crime, con i “nuovi linguaggi”, con tutto ciò che fa parte del “moderno”. Con grande probabilità, anzi con assoluta certezza, Mezzapesa non deve avere mai veduto niente di Lucio Fulci, il che renderebbe ancora più impressionanti certe omologie e analogie con quel cinema: non solo e banalmente con Non si sevizia un paperino (la Lucania, l’atavismo quasi primitivo di certi luoghi e di certa umanità), ma con i Fulci maggiori, laddove la tecnica celebra il più felice imeneo col sinistro, l’ominoso, una indecifrabile mostruosità incombente.

Vorrei limitarmi a questo, come amo gettato a chi nutra dubbi su quanto andiamo dicendo. Vorrei bastasse e vorrei che chi ne fosse adescato si vada a guardare la serie e abbia il piacere e la sorpresa di scoprire che non sono solo parole e idealismi, i nostri. Che ogni scena viene non solo girata ma scolpita come se fosse – ed è, in effetti – una scena definitiva . Era il modo di procedere di Fulci ed è il modo di procedere di chi ha diretto Qui non è Hollywood. Sicché, tutto il resto va a scivolare in un piano secondo: chi l’ha ammazzata, perché l’ha ammazzata e come, assunto che lo zio ne ha solo occultato il cadavere e che la cugina e la zia nella realtà si sono prese l’ergastolo come responsabili. La televisione squaleggiante, il colore grottesco con quei pullman che recano turisti nei luoghi del crimine, trasformati in fiere delle vanità, slittano anch’essi tutti sulla quinta, rispetto a una forma che diventa il contenuto primo e ultimo del film (scappa da definirlo così perché questo è, al finale, Qui non è Hollywood). Potete crederci o non crederci. Diversamente, fidatevi di Grasso e ciurmaglia consociata.