Rabbia furiosa
2018
Rabbia furiosa è un film del 2018, diretto da Sergio Stivaletti
Sergio Stivaletti, la vicenda del Canaro, la prende di petto. Non ci gira intorno, non cincischia né cazzeggia. Non arzigogola con lo stile – non è nemmeno il tipo, lui, da arabeschi. Prende, dritta per dritta, la linea che porta all’inferno. Guarda in faccia l’orrore, come il colonnello Kurtz. Ma, nonostante il suo vettore si indirizzi verso l’orgia rossa e scivolosa di sangue (150 litri sparsi) del finale, non trascura il prima, il preambolo, ciò che prelude e prepara la catastrofe. La narrazione di Rabbia furiosa non cerca la trasfigurazione, né intende sublimare quel che è accaduto in una sfera lirica e mentale. Anche se, alla fine, qualche cosa del genere c’è e dopo il carnaio, dopo l’inferno, dopo il Nulla, il Canaro entra in una sorta di sfera dell’Idea che, per quanto mi riguarda, ho trovato una scelta azzeccata, perché sigilla il film – parecchio lungo, quasi due ore – in una maniera che suona giusta, conclusa. Ma questa è l’unica concessione che Stivaletti fa all’astratto. Tutto il resto è totalmente qui, immerso nella terra, nella materia, e raccontato con semplicità francescana che non è ancora cinema-verità, però ci va vicino. Riccardo De Filippis, lo Scrocchiazzeppi di Romanzo Criminale, fa il Canaro, il cui nome diventa Fabio, da Pietro De Negri qual è nella realtà. Non è cercato e voluto, ma De Filippis un po’ risponde somaticamente al vero Canaro. Il pugile è Virgilio Olivari, più caricato e portato all’overacting, ma va bene così.
Lateralmente, ma nemmeno poi tanto, Romina Mondello è la moglie del Canaro. Nella realtà, quando lui scontò dieci mesi di galera, lei lo mollò, perché è legge fisica e metafisica che piova sempre sul bagnato. Stivaletti ne fa una figura potente, il numero tre del ménage che si consuma sullo sfondo rovente e calcinato del Mandrione, in quell’estate incendiata del 2017 che è passata alla storia di Roma come quella dei fuochi. Il pugile, in una scena, la possiede in piedi, da dietro, sotto gli occhi di marito e figlia. De Filippis abbozza su questo ennesimo sfregio, manda giù, inghiotte il veleno, ma dentro il suo cervello hanno già cominciato a frullare e a mischiarsi l’odio e il fiele, che non restano sterili, si condensano in un piano e in una strategia. Inutile stare a girarci troppo attorno: il Canaro siamo noi, siamo la fiera che si muove nel profondo del bosco e che, se può, azzanna e uccide. Il Canaro è la voglia di prendere un martello e di sfondare il cranio a chi ti rompe i coglioni, a chi ne approfitta, a chi colpisce perché non si aspetta reazione. Al bullo e al prepotente. Al vessatore e a quello che ti piscia in testa.
In Rabbia furiosa la progressione verso l’inevitabile è credibile, perché De Filippis è credibile nel percorrere questa china in discesa che sfocia direttamente dentro l’abisso. Stivaletti, per indole, anche per professione, sceglie di contabilizzare tutto ciò che succede dal momento in cui il pugile entra come un cane in quella gabbia di un metro per due, senza sapere che, a quel punto, è già morto. E qui andrebbero fatte altre considerazioni, non ipocrite e perciò controcorrente: noi – e quando dico noi, dico noi, e chi si riconosce nel pronome capisce cosa intendo – siamo come il colonnello Kurtz e vogliamo contemplarlo fino in fondo, l’Orrore. Noi siamo qui e facciamo questo lavoro, anche per questo. Noi siamo Stivaletti. E gli altri sono gli altri, che hanno tutto il diritto di fare altre scelte e quindi di apprezzare altri film. Ma noi, l’Orrore, abbiamo scelto di fissarlo nelle pupille. NBis: non si possono non citare i cammei, e qualcosa di più, di Giovanni Lombardo Radice e di Ottaviano Dell’Acqua