
Reagan
2024
Reagan è un film del 2024, diretto da Sean McNamara.
Poiché in certi contesti è sempre bene mettere le mani avanti, a scanso di equivoci va detto fin da subito che chi scrive è, fondamentalmente, un tizio di sinistra. Non propriamente un seguace della falce e martello, quanto piuttosto qualcuno dotato di quel minimo di lucidità e onestà intellettuale necessari a discernere tra il ruffiano macchiettismo dell’Hammamet di Gianni Amelio, il nostalgico passatismo fuori tempo massimo del morettiano Sole dell’avvenire e la potente de-mitizzazione del sogno marxista operata da Segre col suo umanissimo Berlinguer – La grande ambizione. Ma oltre che sinistrorso, colui che scrive è anche e soprattutto uomo di cinema; fermamente convinto che queste due anime possano tranquillamente coesistere senza per forza annientarsi a vicenda. Volendo dunque riporre per il momento il libretto rosso di Mao per concentrare lo sguardo esclusivamente sullo schermo che si ha davanti, anche senza preconcetti, sovrastrutture e fisiologiche simpatie di partito è impossibile per chiunque abbia un minimo di neuroni e filmica decenza ancora funzionanti non ammettere quanto un titolo come Reagan sia qualcosa di semplicemente indecente. Non tanto per chi o cosa racconta, sia chiaro, quanto piuttosto per il come. E se già non bastasse il faziosissimo e assai parziale recap storico che fa da sfondo ai titoli di testa a rendercene conto, beh, state pur certi che su questo beneamato “come” ci sarebbe da tirare in piedi un vero e proprio comizio. E per coloro che già fremono sul piede di guerra nell’affermare quanto il biopic sia, per sua stessa natura, votato a un certo grado di licenza poetica più o meno di parte mi permetto di rammentare che, a maggior ragione, quando si ha tra le mani – o, come in questo caso, tra penna e obiettivo – una delle più contestate e sfaccettate patate bollenti dell’ultima tranche del Ventesimo Secolo come il quarantesimo presidente degli Stati Uniti, beh, un tantino di in-parzialità sarebbe forse d’uopo, no?
Ma chi è, dunque, questo Reagan messo in scena da Sean McNamara a partire dalle romanzate paginette di Paul Kengor? Innanzitutto, ça va sans dire, un attore tutto sommato mediocre impersonato a suo volta da un attore in genere tutt’altro che tale come Dennis Quaid; proprio colui che, se rammentate bene, per ironia della sorte già nel televisivo I due presidenti di Richard Locraine aveva prestato mefistofelico volto e ruvido tono ad un parecchio scontroso Bill Clinton nel cui petto sembrava battere un cuoricino decisamente più repubblicano che non democratico. Il suo Ronnie – qui incarnato con un mimetismo pericolosamente al limite della caricatura – pare fondamentalmente quel “predestinato” che da un tale genere ci si aspetterebbe di trovare: vale a dire un integerrimo, devoto, incorruttibile e stakanovista “Unto dal Signore”. Un “prescelto” – come direbbero gli amici fantasysti – la cui Santa Missione sarà quella diffondere il Sacro Verbo in una loschissima Hollywood piena zeppa di sporchi Rossi e, di lì a qualche decade, pure fra i tribolati scranni di un sedotto e abbandonato Mondo Libero. Questo Reagan è, dunque, sostanzialmente un Crociato; così come bonariamente soprannominato dall’ex stereotipatissima spia del KGB incarnata da un mollaccione John Voight, il cui casalingo tête-à-tête con un giovane, rampante e dichiaratamente putiniano politico russo non meglio identificato (Alex Sparrow) servirà da ciceronica cornice narrativa tramite la quale attivare quel lungo flashback che ci condurrà, per le restanti due ore e un quarto, attraverso oltre mezzo secolo di vita privata e politica del nostro sornione cowboy. Un vero e proprio racconto di (disin)formazione che, dalle umili ma già leggendarie origini come occhialuto seguace in bermuda dell’Altissimo, transiterà verso il ben noto e vigliacchissimo credo maccartista davanti e dietro la macchina da presa, proseguendo dritto dritto attraverso il provvidenziale incontro col l’amata Nancy (Penelope Ann Miller) sino alle fasi più salienti – e propagandististicamente rilevanti – di una tardiva quanto strabiliante carriera – leggasi crociata – politica culminata con quell’ormai celeberrimo coup de théâtre al grido di “Mr. Gorbachev, tear down this wall!”.
Questo è infatti, Reagan: un uomo buono, un americano verace e un presidente di ferro, capace di stemperare in un batter d’occhio rivolte studentesche e sedute d’emergenza con il solo potere di una castissima barzelletta, impartendo lezioni di economia sociale con la medesima paternalistica semplicità di un maestro elementare e permettendosi addirittura di tenere col fiato sospeso i destini di mezzo emisfero occidentale per dare la doverosa ed estrema unzione ad un povero pesciolino rosso. Un vero e proprio (super)eroe il cui sempre vispo e aitante occhione pare addirittura in grado di prefigurarsi le catastrofiche conseguenze di un possibile olocausto nucleare manco fosse la Sarah Connor di Terminator 2, mentre la pressante ossessione per quei soliti brutti, sporchi, cattivi e alcolizzati seguaci del Cremlino, pronti a tingere di rosso ogni terraqueo cantone, non riuscirà mai del tutto a consegnarlo al ristorante sonno dei giusti. Un film, quello di McNamara, che non ha dunque alcuna remora nel dichiararsi sfacciatamente parziale sin dal principio; procedendo per omissis – la distruzione delle politiche di welfare e il disinteresse verso l’epidemia di HIV – se non vere e proprie lisciate di pelo – lo scandalo Irangate – al solo scopo di rafforzare la più che mai pretenziosa similitudine fra quel proiettile che, in quel terroristico 30 marzo 1981, quasi concesse al nostro la tanto agognata udienza con l’amato Principale e l’altro, egualmente vigliacco, con il quale il papesco emissario Giovanni Paolo II rischiò di essere richiamato in sede centrale ben prima della naturale scadenza di mandato. Mettiamola così: un Padre della Patria – ovviamente senza macchia e, manco a dirlo, senza alcuna seppur minima paura –, vittima di un più che mai letterale fuoco incrociato ma tuttavia risparmiato da Dio in persona per rendere l’America Great Again. Ricorda forse qualcuno? Rammentate bene, dunque: il problema non è tato chi o cosa, ma piuttosto il come. E qui, spiace dirlo, il come è davvero qualcosa di filmicamente e moralmente ignobile.