Revival
2024
“An award-winning writer and storyteller from Chicago, whose work has been featured on screens big and small across the globe”. Così introduce il proprio profilo, su Fb, Justin DiSandro, al quale si deve il copione di questo Revival. Che è tutto fuorché scontato, considerato come va a toccare il sistema massimo tra i massimi e il sommo tra i misteri: cosa succede quando cessiamo di esistere? Dove andiamo a finire, se da qualche parte finiamo, una volta valicata l’ultima barriera? Chi e che cosa ci attende, dall’altra parte? Niente ha a che vedere con mostri o altre baracconate fantasmatiche, il film sceneggiato da DiSandro e diretto da Dario Germani, nelle risposte che prospetta all’Eterno Quesito: la strada che inforca è ben più sottile, ambigua e complessa e lascia aperta (o meglio: socchiusa) la porta alla possibilità che un aldilà esista, ma nella misura in cui e nella forma in cui ciascuno di noi crede possa esistere e se lo attende. Un certo tipo di horror oltremondano del passato, da Yuzna ad Avati, da Reanimator a Zeder, è distante le mille miglia da un film come Revival, al quale ci pare invece meglio affiancabile un altro recente lungometraggio che si è mosso sul discrimine tra luce ed ombra, ovvero Here After di Robert Salerno, in cui, tuttavia, le “soluzioni finali” appaiono più nette e confortanti. Revival, invece, manovra in un territorio in cui niente può dirsi netto né confortevole.
Essenzializzata, la trama (saremmo in America, ma si è girato a Formello) lancia due rapinatori in fuga, un bianco e un nero, Richard e Grant, Louis Mandylor e Yonv Joseph (qualcuno lo rammenterà bene, il nero, nell’ultimo film della Cortellesi), tra le grinfie di un medico in pensione, Martin (Michel Paré), che vive in seclusione e che si direbbe la persona più mite, saggia e ospitale al mondo. Si direbbe: perché, una volta portati i due nella sua villa e medicata una ferita alla mano di Richard, ammannisce loro una zuppa corretta al narcotico. Il risveglio è dentro un laboratorio, immobilizzati e monitorati: altra gente è lì, alla mercé di certi esperimenti condotti da Martin, il cui fine è sondare gli abissi post-mortem. Come? Uccidendo le cavie, quindi rianimandole con un defribillatore e raccogliendone i resoconti, su quel che hanno sperimentato oltre le colonne d’Ercole del mondo atomico. Parrebbero premesse alla Flatliners – Linea mortale (2017): ma là arrestavano il cuore per un minuto, prima di tornare indietro ed era una sperimentazione consensuale, si ricorderà. Qui, Paré “ammazza” temporaneamente le cavie strozzandole, soffocandole con sacchetti di plastica o garrotandole. E ai redivivi trancia le dita dei piedi (come a Nathalie Rapti Gomez: Germani l’ha avuta protagonista di un altro suo film in arrivo, Golden Blood) per impedirne la fuga o li lobotomizza, che è l’infame sorte toccata allo sventurato Grant, in una scena non poco impressionante. Le motivazioni finali dello squinternato Martin (espulso dal consesso medico e schiavo di droghe e alcool) variano sul tema classico di Orfeo ed Euridice: il ricongiungimento con un antico amore, promesso e quindi perduto nel gorgo della morte di Alice (Violetta Jackson), la cui ombra lo ha seguito nell’aldiqua (forse…), dopo che il medico aveva intrapreso in prima persona l’andata e il ritorno dall’altro mondo.
Ma è il personaggio di Mandylor (partito in sordina) a dominare in tutta la seconda parte della narrazione, perché è attraverso i suoi occhi che vediamo ciò che accade una volta che il cuore ha smesso di battere. Ed è esattamente qui che si innesta l’affascinante concetto di cui all’inizio: il vettore delle rivelazioni è Eliza (Naya Manson), la donna di Richard, insieme alla quale egli si ritrova dentro una casa, la loro casa, che potrebbe essere una sorta di residuo onirico della realtà, cioè del desiderio, protratto oltre i confini dell’esistenza terrena. La donna parla per enigmi, ma dietro i suoi asserti si staglia una teoria, propugnata in certi ambienti esoterici e per nulla pellegrina, secondo cui l’idea del “dopo” è esattamente quella che ci costruiamo nel “prima”. Non una verità univoca, ma strettamente individuale. Germani alza il tiro rispetto all’expoloitation duro e puro delle ultime sue produzioni (sebbene non manchino stoccate truci e ad effetto, compreso un finale che non chiude il gioco ma rimescola il mazzo). Lo può fare anche perché ha ottimi attori, di razza (a noi colpisce anche, particolarmente, Naya Manson, che ha una parte-chiave e la sostiene benissimo) e perché il calibro della storia si presta. Prodotto e distribuito da Andrea De Liberato per Enjoy Movies, ha l’aggiunta di una colonna sonora firmata da Sergio Cammariere e la potente, avvolgente fotografia dello stesso Germani.