Roma nuda
2009
Roma nuda è un film del 2009, diretto da Giuseppe Ferrara
Erano passati vent’anni dall’ultima visita di Tomas Milian in Italia, precisamente dall’autunno 1989 quando venne impegnato, al fianco di Dominique Sanda, in un terribile film tv, di quelli che una volta si definivano dossier, dal titolo Voglia di vivere (tema: una rara malattia cerebrale che colpisce un ragazzino, con in primo piano il dramma dei genitori; dalla stessa vicenda, reale, avrebbero tratto un film con Nick Nolte); regista Lodovico Gasparini; girato in parte in esterni a Capri. Nel dicembre del 2009, Tomas tornava a sbarcare a Fiumicino – convinto dal produttore Massimiliano Caroletti e dalla vecchia conoscenza Dardano Sacchetti, lo sceneggiatore del primo film su Monnezza – per girare Roma nuda, una sorta di spaccato della (mala)vita anni Settanta, sulla falsariga del successo della prima serie di Romanzo criminale di Stefano Sollima. La regia era affidata a Giuseppe Ferrara, regista toscano, classe 1932, divenuto famoso grazie ad alcuni film di mafia che, nonostante l’età, non aveva perso il gusto per l’inquadratura e per il senso del ritmo. Roma nuda, visionato da chi scrive nel maggio del 2013, insieme a Milian e Caroletti, nella saletta privata della Technicolor, quando ancora c’era qualche speranza di distribuzione del film, inizia con la ripresa delle tavole delle vie di Tor Marancia – negli anni Settanta borgata soprannominata “Shangai” – e con un primo piano di Quinto Gambi (il body double storico di Tomas) dentro una 127 verde, in compagnia di Tony Sperandeo. I due sono, ovviamente, dei brutti ceffi, al soldo di Bernard Jovanni, gangster marsigliese interpretato dall’ottimo Francesco Quinn – che nell’agosto del 2011 sarebbe morto d’infarto a 48 anni nella sua casa in California.
Protagonista di Roma Nuda – titolo preso in prestito da una (brutta) canzone di Califano – è Francesco Venditti, figlio di Antonello e Simona Izzo. Da Francesco, attore praticamente da sempre, ci aspettavamo qualcosa di più, anche se nel ruolo del criminale borgataro Sergio non deve essersi trovato troppo a suo agio, lui che borgataro proprio non è: non ha, come si dice, il physique du rôle di un boss della mala, né il linguaggio. Meglio i suoi amici della banda: Nerone (Jonis Bashir), Semi (Fabrizio Sabatucci) o Prospero (Liben Massari). Inguardabile, invece, Raffaele Vannoli nei panni del bandito Barabba. Sergio, con questa banda di criminali, anche se pare più una combriccola di rubagalline, porta una refurtiva alla ricettatrice Pina, una Laura Harring capitata chissà come su questo set. Pina si tromba subito il tossico Semi, perché «C’ha un pisello che non vuole pensieri…» (sic!) mentre, con sequenze repentine, ci viene fatto intendere che codesta gang possiede interessi nel mondo delle mignotte e delle bische clandestine. Ma, come in tutti i film di criminali anni Settanta, non c’è branco che duri a lungo se non è in combutta con le guardie: qui entra in scena il pezzo grosso delle Forze dell’Ordine in pensione, Tommaso Brigante, interpretato da un Tomas Milian che ci tiene subito a precisare di avere origini argentine per giustificare il suo accento ispanico. Accento che era perfetto per i western, per i film di Antonioni e Bertolucci e anche per i ruoli sudamericani che negli anni Novanta e Duemila gli hanno affibbiato in America, ma non per un boss figlio di mignotta con le mani in pasta ovunque, come deve essere questo suo Brigante. Ad ogni modo, Milian tenta subito di mettere Sergio in riga, dicendogli di non pestare i calli a quelli che contano, ma Sergio da quell’orecchio non ci vuol sentire e continua le sue scorribande noncurante degli avvertimenti.
Dopo un omaggio (chiamiamolo così) a Lenzi per una scena in uno sfascio molto simile a quella di Roma a mano armata, Sergio fa amicizia con Romolo Sebastiani, un fantastico Franco Califano biscazziere e cocainomane, e con la sua “amministratrice” contessa Letizia, interpretata da una pessima Eva Henger – moglie nella vita del produttore Caroletti. Califano, nel mostrare la bisca a Sergio, si lascia andare a un: «Qui c’è la mejo crema e la mejo merda», che non si sa bene a chi e a cosa si riferiscano. Letizia avrà subito un debole per Sergio e il filarino farà traballare il matrimonio di Venditti con la moglie Nadia, una sorprendentemente brava Anna Falchi, dal trucco a volte vulcaniano. Negli uffici della Questura, riconosciamo Gianfranco Barra (quello che saltava in aria al posto di Luc Merenda nell’indimenticato La polizia accusa: il servizio segreto uccide) che intercetta le telefonate di Sergio per trovare un cavillo che consenta di arrestarlo. Così avviene e una volta in Questura, Brigante cerca invano di mettere in guardia il Sergino. Da notare che il set della Questura, così come quello dell’ufficio della Henger e della Harring, è sempre lo stesso: l’istituto San Michele di Piazzale Tosti, teatro di mille commedie all’italiana. Il siculo Sperandeo, che impersona il killer Muto, intima a Califano di tagliare i rapporti con Sergio il quale, per tutta risposta, organizza una spedizione punitiva proprio ai danni di Muto, in una sequenza di scazzottate assai poco probabile. Intanto, il redivivo Francesco Benigno, impegnato nel film in un ruolo un pelo superiore alla comparsata, insieme al boss Francesco Quinn, non sembrano curarsi molto delle “intemperanze” di Sergio e lo lasciano fare, anche se non si capisce bene il motivo di tanta indulgenza. Per non farci mancare nulla, Nerone, uno degli uomini di Sergio, si innamora della mignotta Tiziana (impersonata bene dalla conduttrice-attrice Donatella Pompadour) e le apre un salone di bellezza per salvarla dalla strada, in barba al pappone Giuseppe, detto “er Puijese”, che la rivorrebbe alle sue dipendenze. Quando Giuseppe tirerà dell’acido addosso al bel visino di Tiziana, Nerone si incazzerà come una biscia e lo scannerà con un coltellaccio da cucina alla scuderia di Tor di Valle, in una delle sequenze più riuscite di tutto il film.
La cosa che lascia perplessi è che per aver fatto secco una mezza calzetta come il pappone, Nerone venga praticamente ricercato da mezza Roma, sia dalla malavita che dalle madame. Sergio lo terrà nascosto a casa della Harring, ma ben presto verrà trovato da scagnozzi travestiti da poliziotti che daranno il benservito sia a lui che alla complice. Mentre vediamo che Sergio fa sparire dei soldi sporchi donandoli a una comunità, guardacaso facente sempre capo a Brigante, questi lo fa nuovamente arrestare, ma solo per scambiare quattro chiacchiere con lui. Dalla Questura, Sergio fa presto ritorno a casa dalla gentil consorte Nadia, sempre più incazzata per la vita violenta e per le assenze del marito. Nei panni di un tassinaro identifichiamo il caratterista comico Valerio Isidori (il Bingo di Uno contro l’altro praticamente amici), qui alla sua ultima apparizione prima della morte avvenuta il 3 aprile 2014. Semi, nel frattempo, muore di overdose e anche Letizia cerca di salvare Sergio dall’imminente fine, pregandolo di andarsene via da Roma. Bellina la sequenza in cui Tomas, solitario nel suo ufficio, gioca con dei pupazzi a carica. A uno, a forma di spazzino, fa dire: «Ah, vòi spazzà via ‘a monnezza, eh?», mentre cerca di fargli rimorchiare invano un altro pupazzo vestito da matrona russa. «Che, sei frocio?» gli dice. Farina del sacco di Tomas, sicuramente, perché questo monologo-dialogo coi pupazzi strizza troppo l’occhio alla sua vita reale: Monnezza, l’omosessualità (dichiarerà nella sua autobiografia curata da Manlio Gomarasca di avere avuto rapporti gay) e la donna russa (Rita, la moglie di Tomas all’epoca vivente ma scomparsa nel 2012, era sovietica).
Ad ogni modo, deduciamo che l’epilogo del film è vicino quando, a sua volta, Sergio capisce che per sopravvivere deve accordarsi col boss francese Bernard. Tuttavia, per Bernard il tempo dei possibili patti è scaduto e allora invia il solito killer siculo, Muto, prima a ferire il disobbediente Sebastiani a domicilio e poi, sempre a bordo del fiammante 127 verde guidata da Quinto Gambi, a uccidere Sergio in strada, in pieno stile mafioso, con tre colpi di arma da fuoco. Il film, dopo 180 minuti, si chiude così sulle beffarde note della canzone Io vivrò senza te di Battisti. Roma nuda doveva, ma non poteva, essere migliore, perché un film del genere avrebbe avuto bisogno di una produzione seria, di finanziamenti a nove zeri e di un cast che funzionasse. E il cast proprio non funziona: molti attori sono fuori parte, inadatti e improbabili. Si vede che tutto è fatto un po’ al risparmio (poche macchine, poche comparse, poche location…) e che dialoghi e sceneggiatura sono scritti – a voler essere clementi – un pochino “de prescia”. Rimangono una bella regia, una bella fotografia di Nino Celeste e anche una buona musica, del giovane compositore Massimo Filippini, che aveva già lavorato per le ost di Bastardi e di Taxi lovers. I problemi finanziari si avvertirono anche durante le riprese: mentre Milian girò tutte le sue scene in venti giorni nel dicembre del 2009 prima di tornarsene a Miami, Giuseppe Ferrara avrebbe fatto salti mortali per due anni per cercare di terminare il lavoro. Inutilmente. Perché la società di produzione di Caroletti fallì, le maestranze non vennero pagate, si procedette alla messa in mora del film. E arrivederci ai suonatori. Tomas Milian sarebbe tornato a Roma nell’aprile del 2013 – a pochi giorni dalla scomparsa di Franco Califano – per far da testimone al matrimonio tra Eva Henger e Caroletti, che nel frattempo lo aveva rassicurato sulle sorti del film, così come rassicurò tutti i creditori durante una celebre puntata di Le Iene. Tutte chiacchiere, il film era destinato a svanire nel nulla, subissato da cause e controcause.