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Salem’s Lot

2024
Titolo Originale:
Salem's Lot
REGIA:
Gary Dauberman
CAST:
Lewis Pullman (Ben)
Johan Philip Asbæk (Mr. Straker)
Makenzie Leigh (Susan)

Il nostro giudizio

Salem’s Lot è un film del 2024, diretto da Gary Dauberman.

Sarebbe bello poter affermare che, nonostante le premesse, avrebbe potuto esser molto peggio. Ma, alla luce del risultato, è impossibile non constatare che far peggio di così sarebbe stato davvero molto ma molto difficile. D’altronde, come si suol dire, chi non muore si rivede, giusto? E quante volte, nel corso delle ultime quattro decadi, abbiamo visto e rivisto la vampirica epopea di Salem’s Lot resuscitata su grande e piccolo schermo, sotto palesi o mentite spoglie? Parecchie, vero? Da quel primigenio incubo cinetelevisivo firmato da Tobe Hooper nel lontano 1979 che avrebbe gelato il sangue ad almeno tre generazioni a venire, passando per gli apocrifi Vampiri di Salem’s Lot del pazzo Larry Cohen — con un altrettanto pazzo Sam Fuller, mica cotica!— sino all’anonima miniserie di Mike Salomon del 2004 con un Donald Sutherland e un Rutger Hauer non poi così tropo convinti, uno dei più agghiaccianti parti letterari della verace fantasia del Maestro Stephen King ha offerto più e più volte sangue fresco all’industria dell’intrattenimento, venendo tuttavia prosciugato al punto tale da non avere più, apparentemente, nulla da (ri)dire.

Ma se è vero che, almeno sulla carta, si può cavar fuori sangue pure da una rapa, il buon Gary Dauberman — sodale compagnone di penna e filmiche merende del caro James Wan e della sua Atomic Monster, già svicolato dietro alla macchina da presa con il non particolarmente esaltante Annabelle 3 — ha scelto di violare nuovamente i fittizi confini del Maine per riesumare gli ormai putrefatti cadaveri celati da quasi mezzo secolo nello scantinato della goticheggiante (ed hitchockiana) Marsten House; dando vita ad un film decisamente ingannevole che, se nella prima mezz’oretta sembra prometterci, magari non proprio mari e monti, ma quantomeno una suggestiva nebbiosa collinetta, nei restanti ottanta cimiteriali minuti pare invece miseramente destinata a 28 giorni di buio e calma piatta. Ad eccezione tuttavia di un curioso epilogo dichiaratamente metacinematografico dove alla mortifera oscurità di una ben nota cantina si preferisce il tramonto di sangue di un affollato drive-in, le raggelanti pagine vergate in quel glorioso 1975 dal Re del Brivido tornano a spalancarsi, con prudente fedeltà, sul ritorno alla natia Jerusalem’s Lot dello scrittore Ben Means (Lewis Pullman); la cui incauta indagine attorno ai torbidi e, a quanto pare, letali misteri che che paiono celarsi nelle fondamenta di quella ben nota Old Dark House da poco affittata dal tenebroso Mr. Straker (Johan Philip Asbæk) lo condurranno faccia a faccia con un antico e vorace Male più che mai letteralmente assetato di sangue.

Mentre gli ignari abitanti della nefasta cittadina cadranno vittime di una terrificante quanto innominata moria capace di lasciare dietro di sé solamente giugulari mozzicate, cadaverici redivivi e canini insolitamente appuntiti, il nostro paladino della macchina da scrivere e dei paletti di frassino — affiancato dalla bella bibliotecaria Susan (Makenzie Leigh), dall’incredula dottoressa Cody (Alfre Woodard), dal bonario Professor Burke (Bill Camp), dallo scaltro undicenne Mark (Jordan Preston Carter) e dall’alcolizzato Padre Callahan (John Benjamin Hickey) — cercherà di porre fine al mordace dominio che quel secolare Nosferatu da tutti conosciuto come Kurt Barlow (Alexander Ward) pare intenzionato ad imporre, Dal Tramonto all’Alba, tra i confini del disgraziato borgo fondato due secoli addietro dall’equivoco James Boon. Ma nonostante proprio di vampiri ci voglia nuovamente narrare, questo nuovo Salem’s Lot si rivela un film insolitamente e disgraziatamente anemico; tanto in quella sua patinatissima messa in scena rischiarata dalle algide tinte verdeblu di un derivativo WanStyle quanto in una castissima dose di orrore a bassissimo tasso di emoglobina che solo nel rinverdito finale sembra ricevere una tardiva e ormai inutile trasfusione. Tra crocifissi incendiari utili piuttosto come insegne al neon, occhioni traslucidi in pacchiana CGI, personaggi piatti quanto il coperchio di una bara ed un esercito di Non Morti più superpotenti che spaventosi, non fosse che per una sostanza di base un minimo interessante — grazie alla penna di nonno Stephen, non certo all’obiettivo di zio Gary — parrebbe proprio di ritrovarsi in un qualche spin-off del fetentissimo universo di The Nun. Anche se, a ben vedere, giungere all’alba dei titoli di coda in disgraziata compagnia di una suora demoniaca da Dolcetto o Scherzetto piuttosto che di un vecchio ciucciacolli sbarcato dai fondi di magazzino dell’Ultimo viaggio della Demeter, in entrambi i casi rappresenta un amletico dilemma capace di far montare parecchio di quel sangue amaro di cui speravamo ormai di poter fare volentieri a meno.