Sarah joue un loup-garou
2017
Sarah joue un loup-garou è un film del 2017, diretto da Katharina Wyss
È girata in 4:3 l’opera prima della svizzera Katharina Wyss presentata alla Settimana Internazionale della Critica. Un formato televisivo, che oggi ci fa pensare ai filmati di Instagram. Eppure, a parte qualche chiamata Skype legata a esigenze di sceneggiatura, stranamente non c’è molta tecnologia in questo film che parla di adolescenti. Anzi, gli adolescenti protagonisti di Sarah joue un loup garou si confrontano con il teatro, la musica, la letteratura alta, in modo quasi anacronistico, o forse piuttosto senza tempo. Del resto non occorrono i social network per autonarrarsi, l’autonarrazione è forse una delle poche costanti dell’essere umano, specie in una fase della vita in cui per comprendersi, definirsi, “diventare quello che si è”, ci si deve immedesimare in qualcosa, interpretare una parte. Sarah sceglie di interpretare, ci dice il titolo, un lupo mannaro, creatura lunare da sempre associata alla metamorfosi adolescenziale (da I was a Teenage Werewolf al video di Thriller di Michael Jackson, convertito in 3D e proiettato qui al lido insieme al suo making come evento speciale).
È così che, nel suo corso di teatro come nelle sue fantasie (che diventano vere e proprie bugie raccontate a amici e parenti), può costruirsi una corazza minacciosa e respingente che rifletta e allo stesso tempo nasconda il suo dramma personale – questo sì, terribilmente autentico. La realtà asfittica e claustrofobica che vive Sarah, rappresentata dal formato che si rivela quindi scelta ben precisa per chiudere il quadro in confini angusti, costringendo e soffocando la protagonista (l’ottima esordiente Loane Balthasar), è quella degli abusi che a volte nascondono le famiglie apparentemente perfette. Segreti tanto pesanti da consumare Sarah sempre di più, portandola ad anelare al suicidio. Ma le circostanze della vita di Sarah, seppure indagate con lucidità e profondità estreme, non sono l’unico fulcro di questo film tanto ambizioso quanto coinvolgente e riuscito.
La vicenda di Sarah, ispirata a un fatto di cronaca, non è che un estremo, un caso particolarmente radicale che getta una luce sul dramma dell’adolescenza in generale. Wyss accenna ad altre storie in sottofondo: quella di Alice, unica amica della protagonista, che legge Bataille e scopre il sesso, quella di un’altra compagna di scuola che teme di aver contratto l’HIV, quella del fratello maggiore di Sarah legato a lei da un rapporto al limite dell’incestuoso, quella di tutti gli altri compagni del corso di teatro, che possono essere gruppo affiatato e allo stesso tempo crudele branco giudicante e pronto a nutrirsi delle debolezze altrui. La regista osserva questi personaggi secondari dall’esterno, eppure riesce a coglierne la verità come era riuscito a fare Assayas ne L’eau froide. Con L’eau froide il film di Wyss condivide anche il finale tragico, perché al netto dei giochi, dell’effetto terapeutico e salvifico dell’arte, del potere della condivisione, della fiducia e delle speranze della giovinezza, c’è anche qualcuno che dall’adolescenza non torna più. Come ci ricorda questo film sottilmente spietato, c’è chi ci lascia la pelle.