Sfida a White Buffalo
1977
Sfida a White Buffalo è un film del 1977, diretto da J. Lee Thompson
Wild Bill Hickcok, famoso pistolero, è ossessionato da un sogno nel quale si vede caricare da un colossale bisonte bianco. Per venire a patti col suo incubo, Wild Bill si mette sulle tracce dell’ultimo esemplare di white buffalo avvistato sulle montagne del Dakota. Lì il mostro ha nel frattempo menato strage nel villaggio indiano di Cavallo Pazzo, uccidendone la piccola figlia Raggio di Luna. Il pistolero e l’indiano finiranno per incrociare le proprie strade sul sentiero di caccia alla grande belva… Iniziamo con un sofisma: nel titolo italiano, Sfida a White Buffalo, quell’ “a…” è da intendersi come complemento di termine o come stato in luogo? Varrà, ovviamente, la lezione più facile, il dativo, ma non sarebbe senza senso pensare che quel leggendario, primigenio, totemico bisonte bianco abbia trasfuso se stesso, la propria essenza di nume così come il proprio nome, in un canalone imprigionato tra le nevi eterne, nel cuore silenzioso delle black mountains del Dakota: un luogo geniale, teatro della sua umbratile esistenza e arena della sua ultima carica. Charles Bronson è, infatti, ossessionato dalle visioni oniriche (premonizioni) non solo della candida vastità del mostro che gli si avventa contro, scalpitante e schiumante, ma anche da quella lunga valle deserta, tra i ghiacci silenziosi, dove una notte vedrà correre la belva verso di sé, ammirandone l’inesorabile incedere a rallentatore, nell’incubo e quindi nella realtà. Quando ci arriva, Bronson riconosce subito il posto e dice, in inglese che quello è l’Armageddon, e in italiano che è l’Apocalisse.
L’eco biblica e mistica – se quella è la valle di Giosafat, è chiaro che allora il grande bufalo è il Diavolo – vale meno di per sé che per il fatto di essere una delle componenti ad esaltazione di un film tutto mitico. Mito è la fiera albina che strazia villaggi indiani e butta giù pareti di roccia come fosse un Titano; storici eppur mitici sono i personaggi di Charles Bronson, Wild Bill Hickok, e di Will Sampson, Cavallo pazzo (il primo trasformato in un pistolero nictalopo e fotofobico, oltre che scosso di nervi, detto “occhio di gatto”; il secondo degradato al rango e col nome di “verme”, poiché non ha saputo difendere la figlioletta straziata dalle corna del White Buffalo, solo riposando nel cui mantello scuoiato la piccola potrà avere pace nell’Aldilà); mitica è la scenografia di un western occiduo, splendidamente fasullo, reimmaginato tutto in studio, con la munificenza tipica di De Laurentiis; mitici i dialoghi, catene di frasi gnomiche, sentenziose, ad effetto (ma molto – va detto – è l’adattamento italiano che gioca): «Sei in un mare di merda, sopra una barca sfondata»; mitici, infine, i rapporti che vivono i personaggi, improntati all’universale, all’assoluto, a emozioni necessarie; non potrebbero che essere così ed è giusto che siano così, quelli tra Hickcok e Cavallo pazzo, affratellati dalla caccia in un superiore ordine etico; tra Hickcok e il suo vecchio secondo, Jack Warden, che reca su di sé la sconfitta finale di un cinico buonsenso; tra Hickock e Kim Novak, l’unica, brevissima, punteggiatura femminile del film, dal cui letto Bronson se ne va, senza averci fatto nulla, salutandola con una battuta lapidaria.
Quanto al mostro, quelli che scrivono bene e pensano male, dicono che Carlo Rambaldi non era al suo massimo quando costruì il bestione che invece di correre sembra che voli sulla neve. Appunto, pensano male e vedono peggio, perché quel l’enorme bufalo lievitante, bianco sul bianco, con le froge che stillano bava ed eruttano fumo, i minuscoli occhi cerulei, le zampe unghiute da demonio è un’incarnazione del Perturbante coi fiocchi. L’aggancio con Moby Dick c’era già nel romanzo di partenza dello sceneggiatore Richard Sale, che De Laurentiis prese al volo evidentemente per battere finché era caldo il chiodo di Jaws (il 1977 fu anche l’anno di L’orca assassina).