
Sons
2024
Sons è un film del 2024, diretto da Gustav Möller.
Eva, una guardia carceraria di lunga esperienza, ha passato anni a mantenere l’ordine dietro le sbarre, bilanciando il rigore del ruolo con un’insolita empatia verso i detenuti. Li tratta con rispetto, quasi con un senso di cura materna, e questo le ha fatto guadagnare la fiducia di chi vive dall’altra parte della barricata. Ma l’arrivo del giovane detenuto Mikkel (Sebastian Bull) spezza ogni equilibrio, trasformando rapidamente la giustizia in qualcosa di più oscuro e personale. Gustav Möller torna a esplorare la sottile linea tra giustizia e vendetta con Sons, prodotto da Nordisk Film e distribuito in Italia da Movies Inspired
, in uscita il 27 marzo 2025. Il film segna il ritorno del regista svedese dopo il successo internazionale di Il colpevole (Den skyldige, 2018), che ha ispirato anche il remake americano The Guilty (2021) di Antoine Fuqua, con Jake Gyllenhaal. Se lì il conflitto morale si sviluppava nello spazio ristretto di una centrale operativa, qui l’arena è fisica e brutale: il carcere diventa il teatro di una discesa psicologica che mette a nudo le contraddizioni di un sistema che predica redenzione ma sembra fondarsi più su controllo e repressione.Il crollo di Eva è silenzioso ma inarrestabile, nascosto dietro una facciata di compostezza che si incrina lentamente ma in modo irreversibile. Le sue decisioni diventano sempre più impulsive, i confini tra giustizia e vendetta si dissolvono, e il desiderio di punire Mikkel si trasforma in una spirale autodistruttiva. Il gioco psicologico tra i due si fa sempre più serrato: Mikkel smaschera le debolezze di Eva e le usa per soggiogarla, costringendola ad affrontare la sua parte più oscura mentre cerca disperatamente di mantenere una parvenza di lucidità. Sidse Babett Knudsen incarna Eva con una tensione sotterranea e costante: lo sguardo che si incupisce ogni volta che incrocia Mikkel, una pausa troppo lunga prima di rispondere ai colleghi – dettagli minimi che rivelano con precisione chirurgica il progressivo sgretolarsi della sua stabilità mentale. La sua interpretazione è sobria, calibrata, priva di ogni eccesso melodrammatico, restituendo un personaggio spezzato ma ostinato, in cui il conflitto tra giustizia e vendetta si traduce in un continuo e doloroso alternarsi di forza e cedimento. Möller usa la struttura del carcere come una cassa di risonanza psicologica: le celle anguste e i corridoi soffocanti riflettono lo spazio mentale sempre più ristretto di Eva. Il contrasto tra l’ala di bassa sicurezza, illuminata e relativamente accogliente, e l’ala di massima sicurezza, oscura e opprimente, rispecchia la frattura interiore della protagonista.
Per Eva, punire Mikkel non è solo una questione di giustizia, ma un disperato tentativo di riscrivere il passato, di dare un senso a una perdita insensata e cancellare il senso di colpa per non aver protetto suo figlio. Möller costruisce un parallelismo devastante tra Eva e la madre di Mikkel, due figure speculari che riflettono lo stesso fallimento sotto forme diverse. Eva si aggrappa alla vendetta come a un’illusione di riscatto, un modo per riempire il vuoto lasciato dalla morte di Simon; la madre di Mikkel, invece, è condannata a una rassegnazione impotente, costretta a confrontarsi con la natura oscura e irrimediabile del proprio figlio. Entrambe vivono in una prigione emotiva, intrappolate nel senso di colpa e nella paura di aver generato qualcosa di inarrestabile. La maternità, più che una fonte di forza, si rivela una condanna: un legame che non salva, ma soffoca; che non consola, ma prosciuga. In questo intreccio di colpa, giustizia e vendetta, Möller non offre risposte né appigli morali: mostra solo come la linea tra giustizia e ritorsione si assottigli fino a svanire. E alla fine, rimane una domanda inquietante: alcune persone possono davvero essere salvate? O il sistema carcerario è intrappolato in un ciclo di violenza e controllo che rende la riabilitazione più un’illusione che una realtà? E forse questo attiene alla condizione umana stessa: la difficoltà di sottrarsi alla propria natura, di spezzare schemi interiori profondamente radicati, di sfuggire a una forma di condanna che sembra scritta nel cuore stesso dell’esistenza. E se la redenzione non può venire dalla giustizia né dalla punizione, allora dove può trovarsi? Forse nella dolorosa consapevolezza che, a volte, la vera redenzione sta nell’imparare a convivere con l’irrisolvibile.