Sweetheart
2019
Sweetheart è un film del 2019, diretto da J.D. Dillard.
Justin Dillard è quel tale che si era rivelato qualche anno fa con Sleight (2016), roba abbastanza infame su un illusionista in erba che usa la sua arte magica per ritrovare la madre rapita. Sì, vabbè. Coccolo del Sundance, ci ha messo tre anni buoni per tornare all’attacco, stavolta, però, con un signor film che, fatto il passaggio a gennaio al Sundance, again, approda (in senso anche proprio, oltre che traslato – a breve capite) in VO. Dillard è un nero e protagonista del suo film è una nera, la giovane venticinquenne Kiersey Clemons, che si era vista nel remake di Flatliners. Carina ancorché non bellissima, armata di una certa bravura. Dunque, il personaggio della Clemons, che si chiama Jenn, si risveglia sulla battigia di un’isola tropicale, facendoci subito noto, per la messinscena, che è stata vittima di un naufragio. A pochi metri da lei, c’è un altro ragazzo, che sta tirando gli ultimi, con un’affare di corallo infilzato nel fianco. Lei cerca di levarglielo, anzi glielo strappa via, e il poveretto trapassa nel giro di pochissimo. Totale: Jenn è sola sull’isoletta, della quale, a piedi, si compie il periplo in mezz’ora.
Capisce che deve cominciare a organizzarsi, non prima, però, di avere sepolto il cadavere del compagno di disavventura, tra alghe e granchi. L’idea che salta addosso per prima è che si tratti di un survivor, o meglio: di un trap-movie: la Robinson Crusoe cioccolatina si trova bloccata in una situazione da manuale, su un atollo deserto perduto nell’Oceano del Nulla. E quindi deve cavarsela. Ma siccome Jason Blumhouse produce, fatale è che si manifesti un qualche accidente orrorifico o something like that. Difatti. Il cadavere insabbiato presto sparisce, in un lago di sangue rappreso. E siccome appare difficile che da quelle parti (cinematografiche) allignino cannibali o simili, mostro ci deve covare. Jenn, per recuperare una valigia galleggiante, fa qualche bracciata nell’azzurro e mettendo la testa sott’acqua, vede che c’è un enorme buco nero che promette cose sinistrissime. Mantenute quando, una notte, la ragazza si trova ad avere a che fare con un esserone anfibio (bella la scena in cui, sparando un razzo rosso di segnalazione, inutile, a un aereo di passaggio, negli ultimi bagliori del proiettile vede profilarsi sull’acqua una sagoma), che col calare delle tenebre abbandona il mare per cacciare sulla terraferma. Vengono a galla altre cose, intanto. Sull’isola era approdata una famiglia, verosimilmente divorata, di cui vi è traccia in una serie di fotografie ritrovate.
Poi arrivano i resti della metà superiore di un altro sventurato (squali? Chi lo sa?) e a bordo di una zattera di gomma (dove devono essere accadute cose tremende, stile Antropophagus), il ragazzo di Jenn e una tizia… La protagonista resterà, ovviamente, sola a vedersela con l’anfibio, che è fatto malissimo in CGI e zompa come una rana ma, paradossalmente, assolve molto bene alla funzione di succedaneo di un Predator. Tant’è che alla fine la battaglia decisiva, in cui ha parte rilevante il fuoco, sembra proprio un omaggio al film di McTiernan. In fondo, la miglior critica, la più efficace e sintetica, a Sweethearth la fa quell’utente IMDB che sostiene di avere cominciato a vederlo convinto che fungesse da viatico per il sonno dopo una quindicina di minuti, ma si è trovato a guardarlo fino in fondo e a rimpiangere che fosse finito. Certo, lo scenario di Bounty Island, nelle Fiji, aiuta: sabbia d’avorio, cieli altissimi e mutevoli, i muri di palme, esaltati dalla fotografia di Stefan Duscio che aveva già buoni pregressi del genere, avendo fatto Jungle, quello con Daniel Radcliffe. Ma anche il fatto che molte cose non vengano spiegate (il buco nel mare, cosa sia di preciso l’essere) contribuisce a rendere eccentrico e molto intrigante questo Blumhouse.