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Tears of Kali

2004
Titolo Originale:
Tears of Kali
REGIA:
Andreas Marschall
CAST:
Pietro Martellanza
Anja Gebel
Magdalena Ritter

Il nostro giudizio

Chi lo immaginava, nonostante la seminagione di premi mietuta in tutti i festival horror possibili immaginabili, che da Tears of Kali, piccolo film tedesco diretto due anni or sono da Andreas Marshall, si potessero allungare nientemeno che le ombre del capolavoro? Ed è talmente bello, Tears of Kali – cioé elegante, atmosferico, stilizzato, equilibrato, compatto, inquietante eccetera eccetera – che si rimane in imbarazzo nel decidere da quale parte prenderlo: forse bisognerebbe partire dalla pelle, dal piacere citazionista che imperla ogni fotogramma, visto che Marshall ci tiene a farci sapere che conosce e ha profondamente assimilato il bis italiano, con Fulci, Argento e Castellari in testa (Keoma deve essere un suo stracult, se del nome del protagonista è riuscito persino a fare la chiave di volta di uno dei tre episodi di Tears of Kali).

Però attenzione: con tutto che Anja Gabel che si taglia le palpebre con una forbicina per unghie ruscellando sangue sulle sue nudità, catapulti ipso facto all’immagine delle orbite rosse della MacColl in Paura nella città dei morti viventi; e per quanto il corpo  della mesmerica Nuran Celik straziato dal tulpa, sia composto nella medesima postura estetizzante delle vittime argentiane, non c’è niente di più lontano da Tears of Kali di un epigonismo che si balocca e consuma in se stesso. E non gli si leva proprio alcunché, a Marshall, dicendo che il suo film non ha niente né di fulciano, né di argentiano, né di qualunque altra fonte possa venire qua e là evocata (compresi gli orientali, che trapelano in substrato al massacro in ascensore di “Shakti”).

No:  perché in Tears of Kali c’è la lucidità e la solidità di un progetto originale; c’è una dimensione stilistica nuova, acuminata come un pugnale; e c’è, poco ma sicuro, la mano di un regista che – con tutta la cautela che necessita il giudizio su una prima prova – non trema di fronte a niente. La tesi dalla quale muovono le tre vicende narrate nel film è mostrare “il lato oscuro della New Age”, ovvero dimostrare che in seno ai movimenti dell’Età dell’Acquario agiscono individui e forze tutt’altro che armonici e angelici. Marshal ha il colpo di genio di inventarsi una cornice retrogada nel tempo, delinenando (con grande intuizione scenografica e altrettanta capacità visionaria) una sorta di ashram indiano, a Poona, dove nel 1983 gli esponenti della  micidiale setta Taylor-Erikkson mescolavano psicologia e processi occulti per arrivare a sondare le parti più nascoste dell’anima umana.

«Was siehst Du, Kim?», chiede il guru del gruppo, Lars Taylor, che ha la faccia scavata e astratta di Peter Martell, alla giovane discepola Anja Gabel, rannicchiata a feto su un materasso; “Dunkelheit…», l’oscurità. Ed è da quella oscurità interiore che provengono i feroci demoni di cui trattano il primo e il terzo racconto a seguire, “Shakti” e “Kali”, lanciati man mano che la Gabel, dopo essersi recisa le palpebre («Là fuori c’è la luce, c’è la vita, Kim…»), vaga nuda per gli ambienti del santuario. “Shakti” è la preistoria del film, il segmento girato il quale Marshall dovette fermarsi in attesa di nuovi fondi.

Dialoghi e azione psicologica tra le due protagoniste, entrambe ottime, sia Jandris Irena-Heliana, ex amante di un adepto della Taylor-Erikson, sia Nuran Celik, sorella dello stesso che indaga sulla sua misteriosa morte, sono il punto di forza dell’episodio, caratterizzato da uno sbocco ultrasanguinario – che potrebbe anche mancare senza alcun detrimento per l’atmosfera. Comunque c’è, è quindi godiamocela, la furia del tulpa, doppelganger della Jandris e concrezione materiale della sua rabbia. E godiamoci anche l’auto-scuoiamento imposto allo skinhead Marcel Trunsh dallo psicologo in cui ha avuto la sfortuna di imbattersi (uno straordinario Michael Balaun), ex affiliato alla Taylor-Erikkson che intende così liberare il violento paziente dal peso del suo karma.

Il segmento è il secondo, “Devi”, sublime per il modo in cui Marshall lo tiene dall’inizio alla fine: a un certo punto, mentre Trunsh rievoca le sue disgrazie infantili, la mdp, incurante, se ne va da un’altra parte a esplorare l’appartamento del medico, né più né meno come era solito fare Bava. Che raffinatezza! “Kali” è il più standardizzato della triade, con l’assedio in cantina spruzzato a destra e a manca da fontane di sangue. Sicché la forza forte dell’episodio resta essenzialmente consegnata all’interpretazione di Mathieu Carrière e della “modiglianesca” Cora Chilcott.