Tesis
1996
Tesis è un film del 1996 diretto da Alejandro Amenábar.
Angela (Ana Torrent, la sorella di Tano Cariddi nella Piovra) sta preparando una tesi sulla violenza nel cinema; nel corso della ricerca scopre nella sua università uno snuff movie la cui visione ha ucciso, causandogli un malore fatale, il suo professore. Tesis, sceneggiato da Alejandro Amenábar con Mateo Gil, è un’opera intrigante e acerba (nel 1996, quando uscì – anzi, quando in Italia non uscì: da noi è stata distribuita dopo un lustro – l’autore aveva ventiquattro anni), trash e intellettuale al tempo stesso. Amenabar è un regista energico, che mastica i generi e che sa qual è la molla che fa saltare lo spettatore sulla sedia, anche se, soprattutto quando la tira per le lunghe (e in Tesis succede proprio questo) la confidenza con la macchina da presa e il gusto per l’esercizio di stile lo conducono nelle sabbie (im)mobili di un campionario di situazioni e luoghi cinefili; se non vi affonda è solo per il talento (niente sangue e zero effettacci), sano virtuosismo ruspante, e per l’apprezzabile lavoro sui personaggi.
Se Tesis funziona come thriller ben congegnato, di affascinante atmosfera metropolitana e dai numerosi momenti di suspense (la lezione dei classici, assimilata con intelligenza, non diventa mai maniera: certo, per gli avvezzi è un continuo dejà vu, il che potrebbe non essere necessariamente un difetto…), la riflessione sulla morte nelle immagini estreme, liberatoria quanto si vuole nella contrapposizione tra gusto del macabro (come non riconoscersi nella passione di Chema, il collezionista di “robaccia” in VHS, per i film truculenti?) e autentica carneficina, è immatura, vagamente artificiosa e appena abbozzata. La sensazione è che tutto resti in superficie, perdurando oltremisura (il film raggiunge i 125’) una sorta di scaricabarile o disputa etica tra chi debba assumersi il fardello dell’insana visione, in bilico tra rifiuto e accettazione di un destino scopofilo assegnato sia ai più illuminati e consapevoli sia a chi simula improbabili virtù per poi godere davanti alle più assurde tragedie su piccolo schermo (la morte crea audience e alimenta il mercato: sarcasmo contro la televisione).
Alla fine, spernacchiati bacchettoni e media, manca una riflessione convincente sull’estendersi della necrocultura trasgressiva, in un’epoca che conosce un interesse senza precedenti per il trapasso come ultima reazione al buonismo. Al di là dello snuff, intrusione voyeuristica più leggendaria che reale nella camera della tortura (dove la morte è quasi un infortunio: lo spettacolo sta nella sottomissione e nell’agonia protratta, nel dolore distillato), rivolgere l’attenzione ai morti – e quindi registrare il fenomeno – non serve solo ad arricchire le tv che hanno come unico obiettivo il business, ma anche a far vacillare i potenti, a riabilitare una diversità che sfugge alle regole del capitalismo. «Ma chi guarda queste cose?», chiede Angela all’amico horrorofilo che le mostra i filmati della sua collezione. «Tu, ad esempio» è la risposta, laconica e ineccepibile. Niente di originale, ma per ora va bene lo stesso.