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The bleeding house

2011
Titolo Originale:
The bleeding house
REGIA:
Philip Gelatt
CAST:
Alexandra Chando
Patrick Breen
Betsy Aidem

Il nostro giudizio

L’esordiente Philip Gelatt dirige The bleeding house un horror sciatto e pedante con una trama tutt’altro che originale.

“Have mercy on me, sir
Allow me to impose on you
I have no place to stay
And my bones are cold right through
I will tell you a story
Of a man and his family
And I swear that it is true”
(“Song Of Joy” – Nick Cave and The Bad Seeds)

E’ stato impossibile, per chi scrive, non pensare a una citazione (sicuramente involontaria, detto col classico senno di poi), del magnifico pezzo di Nick Cave, davanti alla storia presentata da questo film. Che pareva promettere bene, durante i primi 10/15 minuti.
Diretto dall’esordiente Philip Gelatt, interpretato da attori pressochè sconosciuti, questo The Bleeding House portava in sé un’idea non troppo originale, ma che in nuce poteva avere un suo potenziale: un’isolata casa di campagna, una strana famiglia nella quale spicca una figlia smaccatamente problematica, Gloria, chiamata da tutti Blackbird poiché ella risponde soltanto a questo nome (ed interpretata dalla giovanissima Alexandra Chando, l’unica attrice accettabile del film); questo è lo scenario nel quale compare, biancovestita e sulle prime anche affascinante, la figura di Nick (Patrick Breen), viaggiatore rimasto in panne che chiede ospitalità per la notte. Che gli viene concessa, dopo le prime perplessità, dalla mater familias (Betsy Aidem), fin troppo visibilmente attratta dall’ambiguo viaggiatore.

La famiglia è isolata, sia geograficamente che socialmente, ripudiata dal resto della comunità, per un “terribile segreto” che verrà svelato nel corso del film (ma che anche lo spettatore meno smaliziato riesce ad indovinare entro la prima mezz’ora).
A tavola, con la famiglia al completo, Nick dà inizio a quella che sarà la sua principale attività nel corso dell’intero film: parlare. Predicare, salmodiare, sfinire di parole. Una logorrea assolutamente pedante che affascina per pochissimi minuti e che risulta intollerabile in breve tempo. L’uomo si esprime con uno spiccato accento del sud, con un fastidiosissimo gergo forbito colmo di ovvietà,lasciando subito trapelare (e trapelare è un eufemismo) le sue intenzioni non cristalline. L’uomo ha fissazioni religiose, si atteggia a dotto, è immediatamente attratto dalla cupa Blackbird (e come potrebbe essere altrimenti?). In breve, mette in pratica le sue losche intenzioni verso la non troppo felice famigliola, in quello che vorrebbe essere un crescendo di violenza ma che in realtà,è non solo mortalmente noioso, ma soprattutto assolutamente fastidioso. Ecco, forse, l’aggettivo più adatto per questo film.

Impossibile non provare una reazione quasi allergica in risposta al fiume di ovvietà iper-risapute che ci si vede passare davanti, dalla tipica figura del “giustiziere redentore”, alla disturbata Gloria che uccide uccelli e colleziona insetti morti,fino alla madre frustrata e al padre che ha l’entusiasmo di un’ameba. E intanto Nick parla, parla,parla, fino a spingere lo spettatore a voler togliere l’audio al film.
La pellicola ha chiare pretese intellettualistiche, e in esse muore, senza pietà alcuna. E con lei, muore, in chi guarda, la voglia di proseguire in questa masochistica visione. Tra il goffo tentativo di voler ricordare Funny Games, prediche sparse a caso, un’impostazione da pièce teatrale assolutamente fuori luogo contando i pessimi attori, si riesce anche a trovare qualche momento azzeccato: le uccisioni eseguite da Nick, il quale drena il sangue dalle vittime usando antiquati macchinari; alcune frasi isolate che dice,nel fiume insopportabile di logorrea, sono anche sensate; i momenti di astio da parte del resto del paese verso la famiglia; non da buttare la parte finale, seppur scivoli progressivamente ed inesorabilmente nell’ovvietà. L’attrazione di Nick verso Blackbird non in quanto femmina ma in quanto Figlia a lui simile, sarebbe potuta essere una buona idea,ma è solo accennata, buttata a caso come tutto il resto. In poche parole, malriuscita.

Queste erano le potenzialità del film, ma vengono immediatamente divorate da una sceneggiatura scandalosamente brutta, una regia quasi inesistente, un miscuglio di registri diversi totalmente slegati tra loro. Patrick Breen, nel non comodo ruolo di Nick, si sforza fin troppo di essere efficace ma è evidente che l’attore stesso non riesce a credere minimamente a ciò che sta interpretando; è finto, affettato, tenta di essere disturbante ma risulta solo una mortale fonte di fastidio. Si salva, seppur parzialmente, Blackbird, inchiodata a un ruolo semi-autistico e tuttavia abbastanza credibile, se paragonata alla recitazione del resto del cast,che sembra avviata in automatico.

Un film assolutamente malriuscito, inghiottito da troppe pretese, noioso fino al parossismo. Si salva lo score, quieto e teatrale; buona anche la fotografia, ad opera di Frederic Fasano, già collaboratore di Dario Argento nelle sue più recenti pellicole (La Terza Madre, Giallo).
E dire che l’inizio di tutto questo poteva davvero ricordare, nell’assunto della storia che narra, uno dei pezzi capolavoro di Nick Cave. Il quale, a questo punto, ci si augura che non lo venga mai a sapere.