The Boogeyman
2023
The Boogeyman è un film del 2023, diretto da Rob Savage
Se non fosse che la recente new wave kinghiana ci ha già regalato titoli assolutamente dimenticabili, parlare dell’ultima infornata sarebbe un compito tutto sommato semplice. Invece qui il rischio di ripetere concetti già espressi, benché per colpe non ascrivibili a chi osserva e critica, è sempre dietro l’angolo. The Boogeyman ha perlomeno un pregio in più rispetto a tanti altri titoli del filone tristemente propinatici negli ultimi anni: si limita a essere mediocre. Di una mediocrità fastidiosa, che sfocia nell’insipienza, ma comunque innocua e che non provoca danni. Certo, parliamo di King e della sua opera, troppo spesso edulcorata e impacchettata per le masse a dispetto della complessità dei contenuti, salvo rari ed eccezionali casi. Ma, lasciando perdere passato e patemi, il primo passaggio obbligato è appunto il racconto breve che ha ispirato il film, inserito all’interno dell’antologia Night Shift pubblicata nel ’78 (mentre The Boogeyman è di cinque anni prima).
Periodo creativamente eccezionale per King che, con una concisione da correttore di bozze, riusciva a inserire un’importante quantità di contenuti all’interno di una trama sempre efficace dal punto di vista del genere horror. Questo per dire che il materiale di partenza, come spesso accade quando si passa dalle parti del Re, è di prima scelta, oltre che in continuità con la sua tradizione autoriale. Infanzia violata e negata, figure genitoriali ambigue, ossessioni e fobie: quindi, c’è tutto e allo stesso c’è un vuoto da riempire per farne una storia più complessa e stratificata. Si inizia in effetti bene, nel film diretto da quel Rob Savage che tanto aveva cavalcato, tra l’altro in periodo pandemico, il successo dei web horror tipo Unfriended. Sarà che, se pensi al Lester Billings del racconto, difficilmente può venirti in mente un volto più adatto di David Dastmalchian, anche se purtroppo il piacere dura troppo poco. Sarà anche che Sophie Thatcher è corrucciata e intensa al punto giusto e quindi quasi non ti accorgi di ciò che già è evidente ai limiti del lapalissiano. Ossia che il film investe infatti tutto sui personaggi e su ciò che, di originale, è stato sviluppato dal racconto, dimenticandosi tuttavia di dare un minimo di consistenza ai momenti in cui l’immagine, ed essa sola, dovrebbe trasportare nell’incubo della favola nera. Stanchi tentativi o poco più, quando insomma c’è da quagliare.
Succede così che l’atavico timore dell’oscurità, facente parte del classico meccanismo di difesa infantile scatenato dalla non presenza e dalla non visione della figura di riferimento, viene qui restituito senza particolari guizzi e solo tramite espedienti già largamente abusati o meglio realizzati da ben più ingegnosi mestieranti dell’horror. E anche se volessimo accordare al film il fatto che chiedere di inventare, sempre e comunque, alla lunga diventi un capriccio, allo stesso modo faremmo fatica ad accettare cotanta piattezza. Che, per essere più precisi, è riferita al costante quanto vano sforzo di tenere lo spettatore su ritmi di tensione eccessivamente alti, senza mai provare a rallentare e contrarre i momenti in cui il terrore entra in scena. Anche perché, con questo “Baubau” così scarso a livello visivo e di scrittura, poco c’era da fare, se non magari rifarsi ancora di più all’originale kinghiano per aggiungere un minimo di incertezza e togliere d’impaccio il cast da una recitazione fin troppo monocorde. Tant’è che, nel confusionario e frettoloso finale, sei a posto così: non intendi fare domande perché in ogni caso non ti interessa avere delle risposte. Vuoi solo tornare a casa e andare a letto, a luce rigorosamente spenta.