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The Brutalist

2024
REGIA:
Brady Corbet
CAST:
Adrien Brody (László Tóth)
Felicity Jones (Erzsébet Tóth)
Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren)

Il nostro giudizio

The Brutalist è un film del 2024 diretto da Brady Corbet.

Non si discute la qualità tecnica di una produzione anticonvenzionale, indipendente, low budget e al tempo stesso di rara imponenza. Il progetto per l’ambizioso regista Brady Corbet è stato girato in pellicola 70 millimetri (come The Hateful Eight) e vi ritroviamo i suoi lunghi piani che accompagnano gli attori nei momenti di maggior concitazione. Lo strumento non solo dichiara un interesse tecnico e cinefilo per il mezzo di ripresa nella sue massime capacità, ma anche un più banale desiderio di rievocare l’epoca in cui gran parte della storia è ambientata, gli anni ’50 e ’60. La lunghezza del film di tre ore e trentacinque è necessaria e non gravosa, poiché siamo di fronte a un’opera narrativa avvincente, già accostata a più voci a Il Petroliere di Paul Thomas Anderson. Anche qui al centro della storia vi è un personaggio catalizzatore emblema che ambisce a grandi progetti e di cui viene descritta ascesa e caduta. La storia di un fittizio architetto ebreo ungherese, Laszlo Toth, scappato ai campi di sterminio e che trova una nuova strada di rivalsa, alternando schizofrenicamente umiltà cenciosa e slancio di rivalsa spocchiosa, convinto del suo valore ma al tempo stesso assediato da angosce e sensi di colpa che lo spingono nell’abuso di oppio.

Il protagonista interpretato da Adrian Brody (che lo ha definito il ruolo di una vita) è complesso e non sempre è possibile empatizzare con lui, tra eccessi di commozione e prese di posizione infantili. La sua complessa famiglia e i legami di lavoro, soprattutto con il magnate interpretato da Guy Pierce, lo tendono e lo tirano facendo leva sulle sue debolezze, e questo gioco trova il suo culmine nel viaggio che il personaggio fa a Carrara, dopo il quale la sceneggiatura sembra abbozzare, deviando verso il melodramma. Scacciato dalla sua opera magna, il centro culturale commissionato da Pierce, viene scalzato anche dal finale, dove è la nipote a prendere parola per illustrare il lavoro del prozio, mentre questo assiste inerme, annichilito dal peso della sua pesante esistenza. Che questo film sia immediatamente entrato nei cuori dei frequentatori della Mostra è indubbio e ragionevole, e ci auguriamo che resti nella storia della produzione statunitense, ma preoccupa la tendenza a incensare immediatamente opere comunque travagliate, rischiando di confinare in realtà il dibattito intorno ad esse. Immagino sia dovuto alla lunga lavorazione di questo film l’incespico che avviene nella seconda metà della storia.

Nella seconda parte del film confusione e approssimazione entrano in gioco, e da quando avviene il viaggio in Italia, che culmina mirabilmente in un sopruso perpetrato nell’ombra e nell’umidità e presagisce la perdita totale del controllo del nostro protagonista, saranno sempre gli altri ad avere voce. È forse questo l’aspetto del sogno americano più ampiamente lasciato in disparte nelle narrazioni e nella cinematografia che ci racconta i grandi personaggi della storia? La sconfitta rispetto al proprio progetto, recuperato solo anni dopo e dignitosamente glorificato di fronte a taciuti traumi e colpevoli fughe? I “difetti” di sceneggiatura sono solo dettagli, a fronte di un grande lavoro di interpretazione e di regia. Siamo di fronte a un cinema che cerca di formulare una mitologia, lavorare su un archetipo come un nuovo faro per illuminare il nostro mondo occidentale, fatto di gravi miserie ma anche di illuminismo culturale, di magnati e straccioni che cooperano con estrema difficoltà per creare un futuro. Sembra comunque di vedere un progetto che lega i film di Corbet, tutti accomunati da una fine ricerca estetica: L’infanzia di un leader indagava i traumi infantili, Vox Lux l’età adolescenziale nella formazione di una pop star, mentre The Brutalist focalizza una figura adulta con un occhio sempre rivolto al passato e l’altro scalpitante verso il futuro. Non so se siamo di fronte a un’opera mondo, a un capolavoro, a un futuro Leone, ma sicuramente siamo di fronte a una sfida, per i cineasti e artisti coinvolti, per gli spettatori e per il cinema portato a confrontarsi con le proprie potenzialità.