The Duke of Burgundy
2015
The Duke of Burgundy è un film del 2015, diretto da Peter Strickland.
Usciti dalla visione di The Berberian Sound Studio si aveva una gran voglia di scriverne. I concetti, le idee si affastellavano alla penna con la volontà prorompente di uscire, di comunicarsi. Era facile parlare di quel film, agevole l’euresis, la inventio. Il nuovo film di Peter Strickland, The Duke of Burgundy (Il Duca di Borgogna, con riferimento a una specie rara di farfalla), non favorisce invece questo flusso comunicativo facile. Si starebbe più volentieri in silenzio dopo averlo visto. Si è colti da afasia, in quanto l’oggetto filmico è un po’ un prisma che restituisce luci diverse a seconda della prospettiva in cui lo si guardi: confonde e acceca. The Duke of Burgundy si ambienta in un luogo imprecisato, in un tempo che potrebbero essere gli anni Settanta ma anche prima. Una grande, antica, enorme, magione in pietra, nei pressi di un paese circondato dal verde. La giovane Evelyn (Chiara D’Anna, già in Berberian Sound Studio) vi arriva in bicicletta, al mattino. È una cameriera o donna di fatica, capiamo. La proprietaria della casa si chiama Cynthia (Sidse Babett Knudsen, una brava attrice danese nata nel 1968). Sono entrambe sulla quarantina, non bellissime. Dei tipi. Cinthya, seduta in poltrona, legge, mentre l’altra strofina per terra. Strickland mette subito in rilievo le gambe accavallate di Cynthia, fasciate da collant fumé, con la riga, le scarpe marroni con tacchi alti. Dettagli: colore dello smalto, azzurro/blu, quella magnifica linea Maginot che separa l’orlo della gonna dalla carne coperta di nylon della coscia. L’enfasi feticistica trova presto spiegazione: quando Evelyn vorrebbe congedarsi, terminato il lavoro, Cynthia, secca, imperiosa, le risponde che non ha finito e che prima di andarsene deve massaggiarle i piedi. Così è. Poi sorge una discussione su della biancheria intima di Cynthia, un paio di slip, che Evelyn si è dimenticata di lavare. La serva deve essere punita per questa disattenzione. Cynthia se la tira dietro nel bagno e chiude la porta. Strickland ci ferma al di qua. Sentiamo che la padrona – la Padrona – dice ad Evelyn di tenere la bocca aperta. Sentiamo lo scroscio e capiamo perché, da quando è apparsa sulla scena, Cynthia non ha fatto altro che sorbire acqua da un calice di cristallo.
Strickland è un formalista. E i formalisti partono alla conquista del mondo con la scorta dell’incrollabile certezza che la scelta di forma sia una scelta di stile e una scelta, in ultima analisi, di contenuto. Non stupisce che il regista inglese ami la nostra tradizione cinematografica degli anni Sessanta e Settanta – The Berberian Sound Studio era una bella e scoperta recensione visiva e soprattutto sonora di Suspiria – e la ossequi con avvedutezza, con garbo, con rispetto in molte scene dei suoi film. E non parlo di citazioni che potrebbero essere consistenti ma potrebbero anche essere casuali – bisognerebbe domandare a Strickland stesso, per esempio, se la scelta di circonfondere la vicenda di The Duke of Burgundy con l’aura entomologica abbia a che vedere con Ecologia del delitto o meno –, quanto piuttosto di dispositio, cioè dell’ “arte di collocare al posto più opportuno ciascuno dei termini che vanno a costituire il discorso”. In una sequenza come quella in cui Cynthia e Evelyn assistono a una conferenza sulle farfalle sedute in un’assemblea di sole donne – tutto il film si declina esclusivamente nel genere femminile: non esistono uomini in The Duke of Burgundy –, il lento carrello della macchina da presa che sfila e descrive, definisce, studia e in qualche modo cataloga, tassonomizza le spettatrici ha la somma inutilità narrativa che possedevano i migliori passaggi delle opere più riuscite di Mario Bava, il maggiore dei nostri formalisti. In poche righe è già la seconda volta che mi viene alla penna il nome di Bava. Non sarà un caso.
Un rapporto lesbico e sadomasochistico lega le due donne del film. Dopo la pioggia dorata, andremo man mano scoprendo che tutto quello cui abbiamo assistito all’inizio, altro non era che un rituale, messo in scena da Cynthia per accondiscendere alle voglie di Evelyn, la quale è la vera dominatrix. L’altra le dà corda, acconsente, si presta al gioco. Se guardiamo il prisma del film sotto quest’angolo di incidenza, i riflessi S&M, all’interno di un rapporto di coppia lesbico, sono iridescenti anche se non hanno niente di insopportabile: una delle punizioni che Evelyn predilige è farsi chiudere dall’amante per tutta la notte, i polsi legati, dentro una cassapanca di legno, che per il regista ha tutta l’aria di possedere un fortissimo valore simbolico dal momento che ci spende un cinque minuti buoni di inquadrature per transitare dal crepaccio intercrurale di Cyntia a quell’oggetto e viceversa. Olivier Père recensendo il film ha parlato di un film-mente. Credo intendesse che tutto quel che vediamo da un certo punto in poi è l’estrinsecazione di ciò che passa nella testa delle due donne. Può essere, anche se diventerebbe impossibile da dimostrare. Chi lavora con le forme e su quelle si concentra maniacalmente come fa Strickland – forme immagini, forme suono, forme parola – è passibile delle letture più spericolate e meno ovvie, perché a un certo punto non è più lui a condurre il gioco, la narrazione, ma è ciò che sta raccontando e come lo sta raccontando a portarlo dove vuole. Né più né meno è ciò che succede nel cinema di Bruno Forzani e di Hélène Cattet, che mi paiono i riferimenti più razionali da spendere di fronte a questo The Duke of Burgundy. Che alla fine non mi so decidere a scrivere che sia un bel film o meno. Ma è domanda che di fronte oggeti sensoriali come questo non ha senso.