The Field Guide to Evil
2018
The Field Guide to Evil è un film horror antologico del 2018.
Una delle forme del cinema horror che più incute timore è da sempre quella epicorica, legata cioè al folklore, alla mitologia e alle leggende popolari di determinati luoghi e popoli. The Field Guide to Evil, un omnibus formato da otto episodi, nasce dai produttori americani dei due horror antologici The ABCs of Death, Tim League e Ant Timpson, i quali hanno l’idea geniale di convertire quello che doveva essere il terzo capitolo della saga in qualcosa di diverso: otto registi per otto racconti horror legati al folklore di altrettanti diversi Paesi, con una particolare attenzione alla confezione estetica e narrativa. I registi coinvolti spaziano tra nomi già noti e autori emergenti: gli austriaci Veronika Franz e Severin Fiala (Goodnight Mommy), il turco Can Evrenol (Baskin), la polacca Agnieszka Smoczynska (The Lure), l’inglese Peter Strickland (Berberian Sound Studio e The Duke of Burgundy), l’americano Calvin Lee Reeder (The Rambler), il greco Yannis Veslemes (autore soprattutto di colonne sonore), l’indiano Ashim Ahluwalia (giovane esponente della Bollywood) e la tedesca Katrin Gebbe (regista sperimentale). Ogni regista si è sbizzarrito in autonomia su leggende e riti pagani della propria terra (Strickland si è “prestato” all’Ungheria), dando vita a un omnibus di livello superiore a tanti altri, seppur non privo di difetti – come sempre nei film collettivi, la qualità da un episodio all’altro non è standard. Le storie sono accomunate da un carattere ermetico e sfuggente, spesso difficile da afferrare proprio per la sua natura epicorica, ma anche per questo affascinante; i dialoghi sono ridotti all’osso, le ambientazioni spaziano dal passato al presente, la confezione estetica è quasi sempre di livello medio/alto. Si inizia con la coppia Franz e Fiala, che dirigono The sinful women of Hőllfall: ambientato in una comunità matriarcale e bigotta, ha come protagonista una ragazza che ha un rapporto lesbico con una coetanea incinta, e che per questo suo peccato riceve la visita di un essere mostruoso che giunge di notte e le toglie il respiro.
Come in Goodnight Mommy, i registi giocano molto sull’attesa, la suspense e i silenzi, per poi introdurre il mostro (un essere femminile dall’enorme bocca dentata che compare dopo un atto sessuale): la storia è incentrata infatti su peccato e religione, paura e senso di colpa; buona la scena saffica con nudi integrali nel paesaggio bucolico. Ancora più criptico è Haunted by Al Karisi, the Childbirth Djinn, di Evrenol: una giovane incinta deve accudire un’anziana donna invalida, e dopo il parto sarà alla mercé del demone del titolo, che si presenta sotto forma di una donna anziana ma anche di una capra o di un gatto. Un caprone (ricordiamo The Witch) scruta infatti la ragazza dall’esterno, ma è soprattutto dalla vecchia (forse lei stessa il demone?) che deve difendersi: l’incubo insostenibile dove sta per uccidere il neonato è un presagio della conclusione in un pozzo infernale. Rispetto a Baskin, lo stile è più sobrio, ma non mancano efferati momenti gore e splatter. La Smoczynska conferma il talento visivo mostrato in The Lure nell’episodio The Kindler and the Virgin: in un paesaggio fuori dal tempo, un viandante incontra una vergine – in realtà un demone – che gli spiega come ottenere la conoscenza suprema, cioè mangiando i cuori di tre persone appena morte; ma le conseguenze saranno nefaste. Punti forti dell’episodio sono sicuramente l’estetica – in particolare i paesaggi onirici e il cimitero illuminati da una luce bluette – l’atmosfera gotica, i pasti cannibalici da brividi (ottimi gli FX) e un finale aperto e apocalittico. Ci spostiamo in un più classico horror americano con Beware the Melonheads di Reeder: una famiglia in gita nei boschi degli States incontra dei bambini cannibali (con una testa enorme e deforme) che vivono in quelle foreste. Non si può dire che sia brutto, e neanche girato male, poiché la suspense e l’angoscia si fanno sentire, ma è probabilmente il più classico di tutta l’antologia, e non ha particolari guizzi estetici: attingendo dalle storie di freak e da classici quali Le colline hanno gli occhi, il regista mette in scena il “tranquillo weekend di paura” di una tipica famiglia americana, con tanto di pasti a base di carne umana.
Whatever happened to Panagas the pagan? di Veslemes alza decisamente il tiro, tanto nella narrazione quanto nell’estetica: i Kallikantzaros, demoniaci Goblin della tradizione greca provenienti dagli abissi, escono a Natale per fare macabri scherzi e mescolarsi agli ubriachi; Panagas e i suoi compari riescono a catturarne uno, ma lui sarà attratto a sua volta dall’altro mondo. Trattasi per certi versi di un fantasy molto dark, con la divisione fra mondo e realtà parallela (i Goblin ricordano il Krampus), ma colpisce soprattutto il capovolgimento della tradizione, per cui gli uomini sono più cattivi dei Goblin e utilizzano le creature per dei riti macabri. Ottimi i mostri, esili e con teste che sembrano di legno; magnifici e quasi baviani i paesaggi degli abissi, con una fotografia calda e pastellata. Da questa colorimetria, passiamo poi al nitido bianco e nero di The Palace of Horrors di Ahluwalia: due impresari circensi giungono in un palazzo in rovina immerso nella foresta indiana; qui vivono vari freak, che i due vorrebbero per il loro circo, ma scopriranno orrori indicibili. Dall’episodio precedente conserva il cinismo e la crudeltà degli esseri umani nei confronti del diverso (come non pensare a Freaks di Browning e The Elephant Man di Lynch?); ma la peculiarità di questo racconto è l’atmosfera lovecraftiana che si manifesta tanto nelle creature deformi dei sotterranei, quanto in un Altrove dove si celano mostruosità che l’uomo non può vedere. Alla Gebbe spetta il poco invidiabile primato di dirigere – secondo chi scrive – il segmento meno riuscito dell’omnibus con A Nocturnal Breath: due bavaresi – fratello e sorella – sono vittima di un Drude, uno spirito maligno che si impossessa di un corpo per spargere malattie; ma se si uccide il demone, la persona muore.
Più che criptico, è sconclusionato (ma può essere che mi sia sfuggito qualcosa), piatto nello stile, anche se con alcune buone trovate: il Drude che entra in bocca sotto forma di topo, la carne putrescente degli animali, il legame pseudo-incestuoso fra i due protagonisti. The Field Guide to Evil chiude però alla grande con l’episodio più bello, più raffinato stilisticamente e più autoriale: Cobbler’s Lot di Strickland. Basato vagamente sulla leggenda ungherese della “Maledizione della Principessa”, ha come protagonisti due fratelli calzolai, entrambi innamorati di una principessa: disposti a compiere ogni prova d’amore, dovranno però affrontare la sua vendetta ultraterrena. Prima ancora che per il racconto folkloristico, l’episodio in questione è una gioia per gli occhi, un concentrato di stile che conferma come Strickland sia uno dei più grandi esteti del cinema contemporaneo: utilizza una fotografia anticata, molto seventies, dai colori forti, e omaggia il cinema muto girando una storia senza dialoghi e con cartelli esplicativi. Se vogliamo, è un po’ un compendio del suo cinema, con elementi che tornano (accentuandosi) da Berberian Sound Studio e The Duke of Burgundy: il feticismo degli oggetti e dei piedi femminili, inquadrature psichedeliche e caleidoscopiche (Kenneth Anger è uno dei suoi modelli), luci refniane, musiche ipnotiche (è anche l’episodio dove la musica riveste una maggiore importanza). La raffinatezza estetica non è fine a se stessa, ma funzionale alla storia raccontata, una vicenda gotica di amore e morte con tanto di vendetta sanguinaria dall’oltretomba.