The Menu
2022
The Menu è un film del 2022 diretto da Mark Mylod.
Ammetto di essere andato a vedere The Menu con una certa dose di prevenzione, non sopportando lo tsunami di libri, programmi televisivi, discutibili proposte cinematografiche sul tema della cucina d’autore o di quella fintamente rustica per massaie. A stento riesco a sopportarne persino gli invadenti, torturanti spot imposti durante le pause pubblicitarie di un film o persino le perle raccolte e assemblate dal miglior programma tv di sempre, ovvero Blob. I vari Master Chef & compagni mi fanno passare l’appetito. Ma The Menu è un’altra cosa, è una via di mezzo fra un The Triangle of Sadness in salsa casual-chic (mi si perdoni il vergognoso paragone con il capolavoro di Ruben Östlund) con la sua critica pungente al capitalismo che ignora la fame nel mondo e la scena di Paolo Villaggio e Anna Mazzamauro al ristorante giapponese, dal capostipite Fantozzi (’75) di Luciano Salce. In realtà The Menu è una feroce (in senso letterale) satira al mondo dei ‘sì chef’ e della cucina non-cucina, la cucina concettuale, la cucina molecolare, la cucina dove si mangia poco o niente per la gioia dei critici gastronomici (più spesso donne) che piluccano a tavola con la boccuccia ‘duck face’. Poco importa se la sceneggiatura di Seth Reiss e Will Tracy è decisamente campata in aria sul piano realistico, trasformando in una carneficina degna di un macello bovino, a un passo dal cannibalismo alla Hannibal Lecter, quella che avrebbe dovuto essere una cena esclusiva, in un’altrettanto esclusivo ristorante da 1200 dollari a cranio, nascosto su una sorta di ‘motu’ polinesiano isolato nel bel mezzo dell’oceano.
Il giovane regista Mark Mylon è un tipo decisamente poliedrico: prima di The Menu ha diretto, per il grande schermo, solo una commediola brillante, (S)ex List (2011) e, per le piattaforme, una marea di episodi di svariate serie fra cui sei de Il Trono di spade e dodici di The Shamless con un grande William H. Macy. Questo horror culinario, dunque, è per lui una sorta di battesimo al sangue. Chissà cosa sarebbe venuto fuori da questo film se, come il progetto iniziale aveva previsto, il regista fosse stato Alexander Payne e la protagonista Emma Stone (entrambi rinunciarono per altri impegni). Certo chi ha sostituto la Stone, ovvero Anya Taylor-Joy, già vista in Split (2016) e Glass (2019) di M. Night Shyamalan e, soprattutto, nella serie Netflix La regina degli scacchi (2020), non ha fatto rimpiangere la vincitrice dell’Oscar per La La Land. La Taylor-Joy è infatti bravissima, mentre lo chef ‘estremo’ Jualian Slovik ovvero Ralph Fiennes, molto nazista di Schindler’s List, è un po’ statico, pur terrorizzante al punto giusto. I personaggi di contorno, ovvero i commensali, se la cavano bene nei propri ruoli vagamente macchiettistici: dalla inflessibile cameriera asiatica (Hong Chau), al cliente (Nicholas Hoult) che si immola per il suo sviscerato (sic) amore per lo chef, alla odiosa critica gastronomica (Janet McTeer), all’attore latino (John Leguizamo) che sta lì per autopubblicizzarsi, al miliardario (Reed Birney ) che sbarca sull’isola dal suo yacht, frequentatore abituale del ristorante Hawthorne, così si chiama quello di The Menu, forse per omaggiare, non a caso, l’omonimo scrittore di Salem, re del fantastico e del soprannaturale.
In effetti, c’è del soprannaturale in questo film che, nella realtà, non potrebbe sopravvivere. A tavola, troviamo ancora un gruppo di prepotenti dirigenti di un’azienda informatica e, isolata in un tavolino, l’anziana madre (Rebecca Koon) dello chef, un’alcolizzata cronica che non spiccica una parola. E poi c’è il gruppo di devoti sous-chef, sommelier, camerieri, complici dei misfatti del capo, riverito come il reverendo Jim Jones che il 18 novembre 1978 costrinse al suicidio di massa 912 persone nella giungla della Guyana. Presente nel gruppo di devoti, anche un finto agente della Guardia Costiera. Complessivamente, il film si regge sulle capacità attoriali di Anya Taylor-Joy che rappresenta la sola commensale dotata di capitale umano (fra l’altro finita lì per caso, come accompagnatrice di Nicholas Hoult, interprete del cliente fanatico, per sostituire la di lui fidanzata che lo ha abbandonato). È lei la sola che sa indagare nella contorta mente dello chef Slovik e comprendere la crisi di ruolo che lo attanaglia, facendolo regredire ai tempi in cui, ragazzo, vinse un premio come miglior preparatore di semplici cheese-burger. E sarà proprio la richiesta di un cheese-burger, cucinato da Slovik come Dio comanda, un cibo da persona normale in un contesto di pazzi ricconi e radical-chic che si cibano (si fa per dire) di perle di saggezza culinaria, a eminare la Taylor-Joy dalla lista dei condannati a morte. Il gran finale, un po’ déjà vu, per la verità (che, ovviamente, non rivelo) è un po’ deludente ma, nel contesto del film, non poteva essere diverso.