The Visitor
2024
The Visitor è un film del 2024, diretto da Bruce LaBruce.
La cosiddetta “normalizzazione” del cinema di Bruce LaBruce è in atto da qualche anno, nello specifico da quando il regista canadese ha abbandonato il sesso esplicito di titoli come No Skin Off My Ass e i morti viventi gay di L.A. Zombie. Ma, dopotutto, cos’è la normalità? Al cinema è probabilmente quella imposta dalle regole dell’industria, se in un film c’è una scena di sesso senza dissolvenza sei fuori, sei un reietto, se c’è un pene in erezione apriti cielo. Allora Bruce ha girato un paio di film più “normali”, si fa per dire, perché Gerontophilia raccontava la storia di un giovane ossessionato dal fare sesso con gli anziani e Saint-Narcisse riproduceva a suo modo il mito del ragazzo che si innamora dell’immagine riflessa. E qui arriviamo a The Visitor, presentato alla Berlinale 74 nella sezione Panorama. Per chi dava il regista in luna calante, sostenendo che questa proposta non funziona, per inciso, era impossibile trovare un biglietto, tutte esaurite in pochi minuti le proiezioni a Potsdamer Platz e dintorni.
Bruce LaBruce è un grande ammiratore di Pasolini e propone la sua versione di Teorema. “TO PPP”, si legge negli psichedelici titoli di testa. Ovviamente, le differenze sono radicali. Non diciamo la cosa sbagliata: non è un remake né un reboot, né altri termini astrusi di moda in questi anni. È una reinstallazione dello stesso testo. Il visitatore qui è un giovane rifugiato nero dal fisico stentoreo (Bishop Black) che viene ripescato nel Tamigi, nello specifico emerge dall’interno di una valigia. Lontano anni luce del bianco Terence Stamp dell’originale, naturalmente, ed è una scelta già in sé significativa che evoca la questione dei migranti. Quella di LaBruce è una politica del linguaggio che si riversa nella rappresentazione: nel monologo pre-finale del protagonista, poi, la politica diventa esplicita e frontale. Quando The Visitor arriva nella famiglia che lo adotta, il primo gesto che fa in cucina è orinare nel pentolone in cui si prepara il pranzo, ma anche defecare in un piatto che va a comporre una parte del parto, citando così Salò. Al contrario di quel capolavoro, però, qui la merda è un piatto prelibato e viene gustato, leccato, spalmato: è il mezzo di seduzione che usa il visitatore, il quale sorride soddisfatto. La famiglia borghese è coprofaga, offrendo in dono la sua cacca li ha conquistati.
Il dispositivo teoremico lo conosciamo: l’estraneo penetra nel nucleo, a livello figurato ma anche letterale, nel senso che sarà in grado di sedurre tutti e intrattenere con loro rapporti sessuali, nessuno escluso. Qui è il nero che seduce i bianchi. Non si può dire invece che gli uomini della famiglia siano i maschi etero medi, perché dall’inizio sono truccati e mostrano sembianze femminili. Da parte sua, il visitatore indossa subito un vestito da donna e si dà al crossdressing. LaBruce, come sempre senza dirlo, dentro la messinscena convoca la fluidità sessuale dell’oggi e ce la pone, così com’è e come dovrebbe essere, ossia implicita nello stato delle cose. Ognuno fa quello che vuole nella libertà di tutti, punto. Il film poi si concede delle parentesi rarefatte in cui esplode la musica elettronica, con sfumature techno, della compositrice Hanna Holland. Questa si accompagna a flash gialli, rossi, blu che intervengono nelle sequenze creando una psichedelia che semina la sensazione di vedere un’installazione. Una strategia fluo direi quasi alla Gaspar Noé, ma l’uso narrativo che se ne fa qui è molto diverso, per esaltare alcuni momenti, umori e situazioni.
Bruce LaBruce al solito non teme di mostrare la carne: Bishop Black è nudo, fin dall’inizio, e la parabola prevede vari usi del suo pene, perfino ciccarsi la cenere di una sigaretta. Nella relativa “normalità” raggiunta il regista gira primi piani del membro, pone il sesso rigorosamente in campo, mostra eiaculazioni, raduna certe pratiche considerate estreme: la già detta coprofagia, ma anche il bondage, il sadomaso, il soffocamento, i selfie, le storie su Instagram e così via. Le trovate sono continue, l’invenzione inesausta. Solo un esempio: il Visitor acquista occhi bianchi come un alieno e scopa con la mamma ricoperto di un materiale appiccicoso che sarebbe liquido amniotico (capitolo “Maternal Feticism”), in una sorta di scatola con il nome della casa di produzione, A/Political, se non fosse chiaro. Il colonizzatore bianco viene colonizzato dal nero a colpi di anale.
Non bisogna però scambiare il film – e il cinema – di LaBruce per una provocazione fine a se stessa. Al contrario: col suo omaggio-oltraggio dimostra che una grande storia può funzionare in ogni tempo e luogo, aggiornata alle coordinate di oggi. Il film indica una nuova via sessuale al Regno Unito: una liberazione queer. Sul fatto poi che la rivoluzione pelvica sia portata da un immigrato, ognuno tragga le sue conclusioni. Mentre gli autoroni da festival si prodigano in sfiancanti piani sequenza, tutti uguali, in film che sono stereotipo intellettuale, LaBruce dimostra col suo lavoro che il cinema non deve seguire per forza certe regole, ha ancora la libertà di invenzione, per chi se la prende, può ancora fare come cazzo gli pare. Per fortuna c’è Bruce LaBruce che continua a non essere “normale”. A Pasolini sarebbe piaciuto.