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Timor – Finché c’è morte c’è speranza

2024
REGIA:
Valerio Di Lorenzo
CAST:
Francesca Olia (Rebecca)
Stefania Visconti (Alessandra)
Valentina Vignali (Involtina)

Il nostro giudizio

Timor – Finché c’è morte c’è speranza è un film del 2024, diretto da Valerio Di Lorenzo.

L’intellettuale, il fattone, l’idiota, la passionale, il razionale e il cadavere, non è una barzelletta, ma la formula promettente di Timor – Finché c’è morte c’è speranza. Scritto e diretto da Valerio Di Lorenzo (Buchi neri, Quid), il lungometraggio approderà nelle sale italiane a partire dal 7 novembre. Si tratta di una pellicola che strizza l’occhio all’evoluzione del “gusto” di oggi e che si colloca a metà strada tra la commedia nera e quella dell’equivoco tipicamente nostrana. Calamaro (Rocco Mazzarita), Jason (Giorgio Montaldo), Giammaria (Emanuele Vircillo), Freud (Dario Benvenuto) e Rebecca (Francesca Olia) sono i protagonisti di una storia ritmata da una serie di sfortunati eventi che vedrà il gruppo alla prese con l’occultamento di un cadavere. I fatti si consumano all’interno di un appartamento della periferia romana, il tempo è quello di un’unica notte a partire dalla quale la vita di ognuno dei personaggi potrebbe cambiare per sempre. Se Timor fosse un genere musicale sarebbe punk-rock: sconclusionato, stonato, insofferente nei confronti della disciplina; fa del no-sense la sua religione, refrattaria a ogni meccanismo logico-razionale o, semplicemente, morale; se fosse un’opera d’arte sarebbe uno degli Avvenimenti di Edmondo Bacci dove non manca mai il rosso, vibrante e accecante, che dà luce all’oscurità, ma anche vertigine alla vita stessa.

Ed è nell’oscurità della notte di Timor che questa vertigine si palesa e il tempo si dirama seguendo due ritmi asincroni: quello del mondo esterno, che sappiamo aver sempre fretta di trovare dei colpevoli, e quello interiore di queste cinque, giovani, anime smarrite che scorre molto lentamente. In questa dimensione spazio-temporale distopica i personaggi sono condannati dalla loro libertà di agire, la stessa che li ha condotti attraverso una sequela di decisioni errate a questo momento, ma le scelte da prendere non si sono ancora concluse e ciò farà prendere loro coscienza che è ormai tempo di bilanci. Per dirla attraverso un’esegesi un po’ naif della filosofia esistenzialista sono, ancora una volta, la “situazione limite”, l’assurdo, l’estremo, la morte a condurre l’esistenza verso il naufragio che, inabissandosi, impone a se stessa la riflessione sul passato e la “progettazione” del futuro. A conti fatti, dunque, è sempre la tragedia a mettere l’essere umano di fronte alla sua anima e in Timor non fa eccezione: la tragedia in essere diventa alibi per affrontare i proprio fallimenti, l’evoluzione dei fatti, invece, disegna l’allegoria dell’esistenza: l’ignavia, l’errore, il non-ritorno.

Da questo momento in poi la pellicola va avanti da sé, nutrendosi di umorismo e di collisioni tra i personaggi, ognuno alle prese con se stesso più che con il cadavere in camera da letto. Nel complesso, la prova attoriale non sempre è ben riuscita, talvolta l’interpretazione risulta un po’ acerba penalizzando l’umorismo che perde così qualche tempo. L’andatura della narrazione è abbastanza scorrevole fatta eccezione per qualche brusca interruzione dovuta anche ad alcune musiche tendenti a sovrastare le voci degli attori. Ciò detto Di Lorenzo concede al suo pubblico un plot twist che ha le fattezze di un deus ex machina ben piazzato e che chiude il film senza lasciare seccanti retrogusti. In conclusione, Timor – Finché c’è morte c’è speranza si presenta come un’apologia dello humor nero che va aldilà del politicamente corretto e si fa beffe di quel filone atrocemente ottimistico che negli anni ottanta e novanta aveva fatto della spensieratezza e del “clima vacanziero” la sua raison d’etre. Così, per un’Italia che si diletta con le fiction di preti-ciclisti in gonnella, ce n’è un’altra che il 7 novembre andrà al cinema a godersi Timor, perciò – vien da dire – finché c’è dark comedy c’è speranza!