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Tin & Tina

2023
REGIA:
Rubin Stein
CAST:
Milena Smit (Lola)
Jaime Lorente (Adolfo)
Carlos González Morollón (Tin)

Il nostro giudizio

Tin & Tina è un film del 2023 diretto da Rubin Stein.

Ascrivibile al prolifico e sempre efficace filone degli evil kids, Tin & Tina rappresenta una variante tutt’altro che banale in un sottogenere che raramente ha brillato di creatività, ballando generalmente all’interno di un canovaccio in cui un bambino, simbolo per eccellenza dell’innocenza, dalla dubbia provenienza viene adottato da una famiglia, la quale affronta sin da subito eventi strani legati al nuovo arrivato e che hanno a che vedere con una provenienza per lo più demoniaca. Il film di Rubin Stein, che adatta dopo dieci anni l’omonimo cortometraggio, cerca di cambiare il paradigma di cui sopra facendo saltare il banco e sostituendo il diavolo, mandante primo di ogni bambino cattivo, con il simbolo per eccellenza del bene, il più insospettabile: Dio. In esergo, non a caso, abbiamo la definizione di teofania, ovvero l’apparizione, l’epifania di Dio, che in questo film si rivela, contrariamente alla tradizione, un evento fatale, un’apertura verso l’abisso della sua parola. Il film si apre con un matrimonio ambientato negli anni Ottanta, durante il caos del dopo Franco e il tentato golpe Tejero. Tra le pareti rassicuranti di una chiesa, sotto lo sguardo rassicurante di Dio, si celebra l’unione di Lola (Milena Smit), già in stato avanzato di gravidanza, e il pilota di aerei Adolfo (Jaime Lorente, volto celebre per il ruolo di Denver ne La casa di carta).

All’uscita della cerimonia però una chiazza di sangue fa presagire il peggio: Lola ha un aborto spontaneo, che le danneggia l’utero, negandole la capacità di avere altri figli. L’unica soluzione è l’adozione, per cui si rivolgono a un convento vicino dove fanno la conoscenza di due bambini dai tratti albini, Tin e Tina, che la convincono a portarli a casa. La loro rigida formazione religiosa però creerà non pochi problemi alla neo-famiglia, con l’aggravante che qualcosa di onnipotente sembra davvero agire alle spalle dei bambini. Costellato dall’inizio alla fine di simboli e richiami al cattolicesimo, alla sua dottrina e alla sua iconografia, il film di Stein è un vero e proprio attacco frontale nei confronti della religione, condotto su due fronti. Nel primo, ascrivibile maggiormente al dramma della manipolazione effettuata dalle suore nei confronti dei bambini, c’è una forte critica ai pericoli che può provocare un’interpretazione dei testi sacri letterale, non elaborata tramite gli strumenti della ragione.

Stein trasforma la simbologia cattolica, mostrandone gli aspetti più cupi e terrificanti, e costruisce un thriller molto inquietante in cui da subito l’innocenza dell’aspetto dei bambini e le frasi estrapolate dalla Bibbia assumono contorni spaventosi. Qui l’autore lavora molto di sottrazione, in particolare nelle due sequenze più forti, che coinvolgono rispettivamente un cane e la pratica casalinga di un battesimo. Rubin Stein però aggiunge a questo un lato prettamente più soprannaturale, in cui determinate cose accadono per mano di un dio iracondo, che sembra agire secondo logiche veterotestamentarie, la cui onnipotenza diventa un elemento di tensione assolutamente efficace. Il film si trasforma velocemente quindi in una metafora dell’accettazione del mistero della fede, vista dall’autore come condizione imposta all’uomo e accettata per non subire le conseguenze della sua collera. In quello che poteva diventare un manifesto orrorifico dell’ossessione religiosa o un pamphlet grottesco sul ruolo della divinità, Rubin Stein dimentica però le regole fondamentali dell’economia della narrazione, che accelera e si fa interessante solo nelle scene madri, con ampio uso dei piani sequenza per attanagliare maggiormente lo spettatore nell’incubo della famiglia, per poi inciampare in brani dal ritmo dubbio e dall’utilità nulla, con alcuni cambi di registro dei protagonisti troppo bruschi. Il finale è notevole per portata teorica e orrorifica.