Trap
2024
Trap è un film del 2024 diretto da M. Night Shyamalan.
Da Nodo alla gola (1948) di Hichcock a L’occhio che uccide (1960) di Powell, non è la prima volta che il cinema mette lo spettatore negli scomodi panni di un mostro, nel senso etico del termine, ovvero un essere umano che non esita a usare gli altri come meri strumenti delle proprie ossessioni e del proprio piacere. Quel senso di disagio che abbiamo imparato a riconoscere dentro noi stessi, nel momento in cui ci identifichiamo, volenti o nolenti, con qualcuno di spregevole, ce lo restituisce stavolta M. Night Shyamalan con Trap. Josh Hartnett, leggermente imbolsito dai tempi di Slevin e Black Dahlia, perfetto nella parte, interpreta Cooper, un padre di famiglia che porta la figlioletta dodicenne Riley a vedere il concerto dell’idolo pop del momento, Lady Raven, (interpretata da Saleka, cantante nella realtà, nonché figlia di Shyamalan), una sorta di cyborg misto Swift/Gaga, forse, concettualmente, più Swift. Tutto il concerto è in realtà una grande trappola (come diceva Tom Cruise nel primo Mission Impossible) per portare allo scoperto e catturare un truculento serial killer, soprannominato il macellaio. Il bello è che il Macellaio è Cooper, cosa che è stata sbandierata fin dai trailer, come a dire: ecco, il twist alla Shyamalan è servito fin dall’inizio, come assunto della trama, inutile che state a scervellarvi perché il fulcro del film non è il colpo di scena. Eppure ancora oggi c’è il brutto vizio di aspettarsi sempre il plot twist ribaltante da parte dell’autore del Sesto senso, come se la sua poetica e la sua filmografia si basassero principalmente su questo e non su una decostruzione totalmente originale del genere thriller, o thriller soprannaturale, o perfino del cinecomic, che scava a fondo nell’inconscio della nostra società, portando a galla paure, idiosincrasie e ipocrisie collettive. Anche con questo Trap ci riesce perfettamente, all’interno di un percorso sempre coerente e originale.
La prima parte del film, che corrisponde al consumarsi del rituale pop della nuova, fittizia, beniamina dei teenager, è quella in cui l’identificazione col Mostro è più facile perché, nonostante l’ostaggio nella cantina, non è difficile empatizzare con un amorevole padre di famiglia che vuole talmente bene alla figlia da sorbirsi un insopportabile concerto della Taylor Swift di turno. Infatti, nel corso delle strategie messe in atto da Cooper per carpire informazioni dalle persone dello staff, spiare le forze dell’ordine, FBI compresa, e introdursi nel backstage di Lady Raven, viene naturale parteggiare per lui e, magari, cercare di avvertirlo gridando It’s a trap!, come farebbe il generale Ackbar de Il ritorno dello Jedi. Ma Cooper non ha bisogno dei nostri avvertimenti o di quelli del generale dalle fattezze di calamaro, perché è fin troppo scaltro nel convincere un venditore di magliette che lui è un bravo padre di famiglia dai sani valori, o alcuni agenti di polizia che è un impiegato del fast food dell’arena in cui si tiene il concerto. Non è però solo l’abilità affabulatrice e la freddezza del personaggio a spianargli la strada ma anche il mondo vacuo, molle e ipocritamente gentile che germoglia attorno alla pop star e al suo entourage diventa un terreno assolutamente permeabile alle sottigliezze del lucido e intelligentissimo serial killer. È in questo che il bisturi di Shyamalan affonda e fa centro, ovvero nel dipingere un mondo di teenager anestetizzate che, per la durata di un concerto si esprimono solo al grido Oh mio Dio! E l’entourage di Lady Raven non è da meno nel dar credito alle prime balle che gli si racconta, in nome di una gentilezza forzatamente inclusiva che può rivelarsi fatale. Proprio come succede agli stupidi protagonisti del bellissimo e agghiacciante Speak No Evil (di cui adesso hanno realizzato il remake americano con James McAvoy), del danese Christian Tafdrup. Si tratta di un mondo borghese che, per sua stessa natura, permette che il Male venga perpetrato, anche a scapito della propria incolumità. È lo stesso mondo in cui i padri portano le figlie ai concerti della Swift, autoconvincendosi che si tratti di musica eccellente, grazie anche a un comparto mediatico che esalta la cantante come un moderno cantastorie interprete del disagio moderno, manco fosse Roger Waters.
Su tutto questo Shyamalan ci costruisce un perfetto meccanismo hitchcockiano, intendendo con hitchcockiano anche l’implausibilità di alcune situazioni che siamo disposti ad accettare, così come lo si faceva tranquillamente anche per il Maestro del Brivido. L’affabulazione della messa in scena di Shyamalan è sempre elevata, con l’uso di primi piani frontali di Cooper e dei suoi interlocutori che, mettendoci in gioco in prima persona, interrogano la nostra coscienza, attizzando quel disagio di cui si diceva all’inizio. Notevole l’utilizzo della Split Diopter Lens, ovvero quella lente particolare che, messa davanti all’obiettivo, permette di ottenere una incredibile profondità di campo, lasciando una piccola linea di fuori fuoco al centro (De Palma e Spielberg sono specialisti nell’uso di questo dispositivo). Shyamalan la usa per regalarci una splendida inquadratura di Cooper in primo piano, con sullo sfondo l’anziana profiler dell’FBI, responsabile dell’operazione di cattura del Macellaio, rendendo così l’idea, nell’ambito di un unico fotogramma, di un perfetto sbilanciamento delle forze in campo. Non manca il consueto cameo di Shyamalan che poi non è mai solo un cameo ma una piccola interpretazione, comprensiva di battute, di personaggi minori, ma comunque fondamentali per l’avanzamento della narrazione. Si ricordi per esempio l’autista che investe la moglie di Mel Gibson in Signs. Concluso il concerto, la seconda parte vira in un modo che ovviamente non possiamo rivelare qui, presentandoci tra l’altro Lady Raven in una luce tutta nuova, lontana dal personaggio pubblico. Anche in questo Shyamalan ci spiazza, disattendendo le aspettative di un pubblico che immagina la popstar come un essere superficiale e narcisista. Nella seconda parte interviene la grandissima Alison Pill, il cui talento abbiamo imparato a conoscere dalla bellissima serie The Servant, ideata e girata in parte dallo stesso Shyamalan per Apple +. Perfetta nel rendere l’angoscia e il disagio che potrebbero essere gli stessi provati dalla compagna di Ted Bundy nel momento in cui scoprì la natura del suo fidanzato: è vero, i serial killer possono anche essere dei perfetti padri di famiglia, mimetizzati in una comunità ‘perbene’. E Josh Hartnett, in questa sua maturità d’attore, ci regala un’interpretazione disturbante al punto giusto: fintamente empatico e gentile quando serve, glaciale quando la sua vera natura esce fuori per necessità, proprio come sanno essere i Serial Killer. Non credete dunque a chi ripete ostinatamente che Shyamalan è ormai ‘bollito’: l’autore indiano di Philadelphia sa bene ciò che fa e lo persegue in un suo percorso decennale originale e coerente, che piaccia o meno.