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Ultimo tango a Zagarol

1974
Titolo Originale:
Ultimo tango a Zagarol
REGIA:
Nando Cicero
CAST:
Franco Franchi (Franco)
Martine Beswick (la ragazza)
Nicola Arigliano (Marcello)

Il nostro giudizio

Ultimo tango a Zagarol è un film del 1974, diretto da Nando Cicero.

Interrogativo di base: parlare bene di Ultimo tango a Zagarol (così l’ortografia del titolo e non Zagarolo) comporta parlare male di Ultimo tango a Parigi? La tentazione sarebbe forte. Il film di Bertolucci con le sue emulsioni di Bataille e Freud irranciditi, dopo cinquant’anni sembra ancora più brutto e torvo e malinconicamente noioso di quanto non irritasse allora. Campo per gli esercizietti funambolici di quella critica che non capiva e cercava disperatamente di non far capire agli altri ciò che credeva di trovare frugando le interiora di quel cadaverico corpo filmico. Amen. Goffredo Fofi dicono dicesse, anche lui, che Cicero era meglio di Bertolucci, senza pensarlo, verosimilmente.

No, io intendo: essere davvero convinti che a Zagarol(o) succedessero cose più degne di perderci tempo e pensiero che nell’appartamento vuoto di Passy, nella Ville Lumière diventata anodino chiarore di tenebre – la sensazione che resta, come sedimento nella memoria, di Bertolucci, grigio, grigiore, tristezza. Si può. Si può credere che Cicero, uscito da Bertolucci, esclamasse davvero come raccontava a Sergio Grmek Germani, davanti alla vasca della foca (W la foca!), nello zoo di Roma: «E qui tocca fare la parodia!». Con il punto esclamativo, interiezione di ammirazione di fronte alla forza cogente con cui l’idea gli si era affacciata, come assoluta necessità. Cicero aveva il potere di nobilitare i film deprimendoli, sapeva spingere la situazione sempre più in là, cioè più in giù, rispetto a tutti gli altri commediari contemporanei, troppo pavidi o troppo perbene per affrontare grandi cimenti rivoluzionari nel genere.

Qualcuno porta dentro l’operazione Franco Franchi e sarebbe interessante sapere chi ebbe la pensata, se il produttore Mario Mariani al quale viene accreditato il soggetto o Cicero stesso (che con Franchi e Ingrassia aveva fatto Armiamoci e partite – mettendolo a culo nudo anche lì – e Ma chi ti ha dato la patente? Ku fu? Dalla Sicilia con furore di Cicero con il solo Franchi è di quello stesso giro di mesi ed esce in agosto, un mese dopo Zagarol). Il rovesciamento strategico nella sceneggiatura di Marino Onorati è il chiasmo tra i ruoli che erano di Brando e della Schneider e quelli che sono di Franco Franchi e di Martine Beswick, giamaicana, hammeriana, bondiana, bravissima, con uno splendido corpo e capezzoli grossi come 45 giri, che in Italia stazionava fin dai tempi di Quien sabe? È a Brando in Bertolucci che risponde lei, la sconosciuta – che si scoprirà nomata Giovanna e di professione puttana – nel film di Cicero, così come Franchi sta alla Schneider, cioè al patimento e alla sottomissione, nella dialettica di coppia. Franchi è mostruoso, si beve Brando, sbaraglia con il suo fisico ogni interiorità o mentalizzazione o metodo.

Franchi non deve pensare di essere, semplicemente egli è. Indossa lo stesso cappotto di Brando, gli stessi maglioni scollati con niente sotto. Ma la fenomenologia finisce nei costumi. Continua ad essere mamo, certo, ma riesce ad essere perfettamente a misura di ogni situazione, senza la necessità della sguaiataggine per forza, come con Ingrassia, quando questa era la legge necessaria al funzionamento del duo. Zagarol lo mette nella condizione di sfruttare maschere e tempi quasi drammatici e Franchi cammina lungo il discrimine, sulla sottilissima lama di questo rasoio, con una precisione impressionante. È l’uomo, il suo personaggio, dei bisogni semplici e primari che non riescono a venire soddisfatti: la necessità trofica, la necessità sempre rimandata e negata del cibo, diventa esca a situazioni di tragedia comica, se si passa l’ossimoro, semplicemente meravigliose.

Quando la Beswick, bastardamente, lo manda al bagno per lavarsi le mani e intanto gli mangia tutti i supplì che lui si è comperato e che ha disposto nel suo cartoccetto, con un gesto che genere tenerezza e pietà, l’effetto è devastante, una risata sadica che non può non essere però anche condolenza. Esiste cioè qualcosa di più in Zagarol, dietro e dentro a ogni situazione. Non è poi così importante che questo qualcosa sia definito ma che lo si avverta, che aleggi. Il panneggio bianco nell’appartamento che copre non si sa cosa, un monumento al dio ignoto: («Ma che cazzo ci sarà lì sotto?») è il simbolo dell’anima misteriosa ma sensibile del film, la coscienza di una pellicola che travalica l’etichetta di commedia e si addentra in territori laterali, in cui il becero si tocca miracolosamente con il sublime.