Un apprezzato professionista di sicuro avvenire
1972
Un apprezzato professionista di sicuro avvenire è un film del 1972, diretto da Giuseppe De Santis.
La fine del cinema di Giuseppe De Santis non poteva che coincidere con il cupio dissolvi barocco macabramente esposto in Un apprezzato professionista di sicuro avvenire. Di fronte a un simile oggetto filmico, misto tagliente di imperfezione e fascino, emerge evidente tutto un conflitto interiore che doveva agitarsi nel vecchio regista di Fondi, ex-padre del cosiddetto realismo socialista italiano: da una parte la lucidità e la consapevolezza del ricambio dei meccanismi in atto nel 1972, del clima nuovo in cui il nostro si trova ad agire, profondamente mutato anche solo rispetto a quello di otto anni prima -epoca a cui risale la sua prova più recente, Italiani brava gente; dall’altra, forse per la ferma volontà di De Santis di tornare sul set, la sua accettazione di alcuni compromessi di natura merceologica che il cinema coevo gli richiede senza troppi convenevoli. Ecco, il suo Apprezzato professionista è appunto l’incontro, o meglio, l’impatto per nulla privo di scosse, tra la cultura “nobile” del melodramma, matrice intima del suo cinema, e le scelte di mercato dei primi anni Settanta, che impongono tanto i temi del giallo giudiziario, allora in voga dopo il lancio di Petri col suo Indagine (ma Lino Capolicchio non è Volonté), quanto le massicce dosi di nudo femminile, ben tradotte dall’insistito look senza veli di una Femi Benussi non ancora reginetta della sexy-commedia, che sembra molto a suo agio spogliata, forse consapevole di star girando, dopo Pasolini, il film più autoriale della sua carriera.
Il risultato di questo delicato incrocio è un film continuamente spostato, fuori registro, eccessivo, ma proprio per questo assai aspro e malato, capace di sublimare la patologia dei personaggi e degli ambienti in un linguaggio furioso e stravolto, spesso fin troppo carico di indizi, di elementi a cui aggrapparsi. La geografia narrativa viene continuamente ridefinita dai numerosi, disarticolati flashback che giocano con la conoscenza dello spettatore, spostando i registri dal melò – la scena in cui Capolicchio passeggia sulla spiaggia al tramonto mentre il suo amico prete, Robert Hoffman, gli ingravida la moglie, resta negli annali del genere – alla commedia – tutte le parti con Riccardo Cucciolla sanno di una cialtroneria tenera -, passando per l’horror, la cui componente visionaria emerge nel turpe leit-motiv del ricordo dell’omicidio o nei deliri d’impotenza dell’avvocato, con tanto di ralenti ed effetti d’eco ad esaltarne l’anormalità.
Il tutto è calato in un clima di dissolvimento e decadenza così tangibile da far coincidere la rentrée di De Santis, per lungo tempo inseguita, desiderata (per fare il film, il regista non esista ad autoprodursi, facendosi aiutare soltanto dall’amico e co-sceneggiatore Giorgio Salvioni), col suo non proprio inconsapevole “addio al cinema”; del resto, la coscienza di appartenere a una fase della storia del cinema italiano che non c’è più si fa lampante sin dalla sequenza degli open credits, con i funerei Carmina Burana riarrangiati da Maurizio Vandelli degli Equipe 84, che danno dell’opera una chiave di lettura in nuce davvero appropriata.