Una magnum special per Tony Saitta
1976
Una magnum special per Tony Saitta è un film del 1976, diretto da Alberto De Martino
Ispirato a un vecchio soggetto di Alberto De Martino, riadattato dal regista con l’aiuto di Gianfranco Clerici e Vincenzo Mannino, Una magnum special per Tony Saitta non si contiene nei limiti del poliziesco d’azione, e tracima nel thriller, con una formula mista alquanto originale (le due anime sono, oltre che dal titolo italiano e da quello americano Strange Shadow on a Empty Room, “strane ombre in una stanza vuota”, ben riassunte dall’artwork dei due rispettivi manifesti, dove Saitta che cannoneggia con la sua Magnum si oppone al tenore argentiano di un cadavere impiccato in una stanza semibuia nel poster americano). Stuart Whitman, il capitano Saitta nel film, aveva nel 1976 cinquant’anni. Ed è un perfetto stereotipo dell’attore hollywoodiano di mezza età, lievemente “appesantito”, che si piegava al nostro cinema bis per ragioni alimentari, finendo tuttavia per offrire in questi contesti il meglio di sé. E Withman lo offre, il meglio di sé, in Una magnum special per Tony Saitta dove incarna alla perfezione un tipo di poliziotto americano, duro come una roccia, che solo nel nostro magnifico bis poteva essere rappresentato in questo modo: vestito sempre di un impeccabile doppiopetto e cravatta regimental, il capitano, grande e grosso, procede come un tritatutto lungo la strada lastricata di omicidi che lo deve condurre a scoprire la verità sulla morte per avvelenamento della giovane sorella Carole Laure: imperturbabile anche di fronte alla scoperta finale che la sorella era tutt’altro che uno stinco di santo e che il colpevole della lunga catena di delitti è stato l’unico del quale il poliziotto si fidava e non aveva sospettato – gli basterà pochissimo, comunque, per decidere di spedire anche lui al Creatore, abbattendo a colpi di Magnum l’elicottero sul quale tenta la fuga.
Da come De Martino presenta il personaggio nella tiratissima sequenza iniziale, impegnato a intercettare una gang di rapinatori e a giustiziarla a sangue freddo senza la minima esitazione (anteponendo il dovere alla chiamata telefonica della sorella in cerca di aiuto), si capisce che nel caratterizzare Saitta in questo modo c’era del metodo. E che si voleva andare in controtendenza, facendo di questo massiccio poliziotto un eroe bello ruvido. Anche gli sbirri bastardi, mantengono di solito una stilizzazione etica ben precisa. Tony Saitta no: è uno tutto d’un pezzo (alla puttana che gli dice: «Non c’è pericolo che mi sgonfio», risponde «Neanch’io, cara!») ma privo di idealità o romanticismi: e, soprattutto, privo di flessioni, dubbi, remore. Nervoso, gli basta un niente per scattare, come quando va ad aprire una casetta di sicurezza e finisce per scazzottarsi con gli agenti di custodia in borghese che gli chiedono i documenti (scena in cui il montaggio di Vincenzo Tomassi è essenziale nel rendere perfettamente l’idea del peso e della forza dei tre marcantonii che se le danno).
Altrove Saitta affoga un sospettato nel lavandino di un cesso pubblico, starebbe quasi per cavare gli occhi a un testimone reticente, interroga Gayle Hunnicut sul fratello, un omosessuale appena morto ammazzato, fregandosene di qualunque tatto. E senza scomporsi picchia selvaggiamente tre travestiti karateki in un attico, nella scena più celebre del film accompagnata dalla splendida colonna sonora di Armando Trovajoli. Si aggiunga, oltre alla robustezza internazionale del cast (oltre la Hunnicut Martin Landau, John Saxon, Tisa Farrow nel bel ruolo di una cieca), che Carole Laure si vede nuda, che il montaggio di Tomassi è non solo serrato e molto creativo, che assistiamo all’inseguimento d’auto forse più lungo e articolato della storia del cinema, che i panorami di Toronto sono splendidamente catturati dall’obiettivo di Aristide Massaccesi, che i dialoghi avanzano a frasi definitive e scolpite nel marmo e che il doppiaggio italiano è imprescindibile. Quanto il film. Piccola nota gossip raccontata da De Martino: Stuart Withman accettò di fare il film in Canada per allontanarsi dalla città in cui viveva, essendosi appena lasciato alle spalle una relazione sentimentale extraconiugale molto complicata.