Una vergine in famiglia
1975
Una vergine in famiglia è un film del 1975, diretto da Mario Siciliano.
Tutto, come suol dirsi, è relativo. Se rispetto alla commedia dei baroni, quella monicelliana o risiana, le farse fescennine con i vari Banfi, Fenech di Martino o Tarantini, erano stimate sotto-prodotti o marche da discount, esisteva un livello ancora più basso – l’aggettivo dell’establishment critico sarebbe “infimo” , cioè ancora più sotto della fogna – rispetto al quale i citati Martino e compagnia cantante avrebbero fatto, loro, la figura dei baroni. Una vergine in famiglia di Mario Siciliano, alias Luca Degli Azzéri, sarebbe una di queste commedi(acc)e da sottosuolo, nella tassonomia sempliciotta che anche tanti cultori del cinema bis accettano e condividono , perché in fondo il solco tracciato dalla critica negli anni Settanta continua a essere profondo e, Nocturno o non Nocturno, Stracult o non Stracult, ci sono un sacco di spade pronte a difenderlo. Cinefili bis sì, ma cum iudicio. Dice: “Mario Siciliano?! Ma figurati, Mario Siciliano…”. Il problema è semplice ed è sempre lo stesso: finché non vedi il film non sai di che si sta parlando. Poi lo vedi e magari scopri che Luca degli Azzéri ci sa fare, anche nella commedia come nei generi dell’azione; che Una vergine in famiglia sembra più Terenzio che Plauto; che è un’operetta icastica e corrosiva come difficilmente le produzioni Dania riuscivano a essere, avvicinandosi allo spirito anti-borghese dei film della Guida, con la differenza che qui tutto è meno morbido, meno rotondo: a cominciare dai caratteri… Morale: bisogna, alle volte, scendere per salire più in alto…
La pulce me l’aveva messa nell’orecchio Franca Gonella, che diceva, a proposito del personaggio da lei interpretato in questo film di Siciliano, che era tra i pochi che ricordasse con assoluto piacere «perché io lì ero veramente un amore… una ragazzina che sembrava un babà». E aggiungeva: «Una vergine in famiglia fu condannato perché era contro l’istituzione familiare. Ma garantisco che non c’era nulla, neanche una scena di nudo. Il mio avvocato volle a tutti i costi che andassi a Latina, dove si celebrava il processo: “Se tu vieni, sono sicuro che questo film lo liberano, sono sicuro!”, mentre io non credevo a questa cosa. Ma lui insistette e io andai. Il giudice disse – me lo ricordo come fosse ora: “Nonostante la grazia e il garbo della protagonista, riteniamo questo film contro l’istituzione familiare. Vennero da me a congratularsi, tutti, e però poi lo bocciarono». Con un viatico del genere, toccava vederlo, il film di Siciliano, ma prima ancora trovarlo: cosa niente affatto semplice, perché sembra davvero che sia stato colpito da una specie di damnatio memoriae. Scomparso quasi subito nei cinema. Ma ne esiste una copia trasmessa su satellite e una videocassetta greca, che dovrebbe essere la versione più intatta.
La Gonella è effettivamente deliziosa in Una vergine in famiglia. Poco nuda, molto espressiva. Una vergine perfetta immolata in olocausto a una famiglia che più che un’istituzione a delinquere (secondo la geniale definizione espressa in un altro film iconoclasta, La grande scrofa nera) è un vero e proprio conglomerato di mostri. Il padre, Mario Colli, è una caricatura sinistramente plausibile, un puttaniere perbenista che fa il paio con il personaggio di un altro film con la Gonella, il contemporaneo, ruspante, La bolognese, dove Luciano Pigozzi va in casino e ci ritrova la figlia esattamente come succede qui al genitore che sta per abbassarsi i calzoni di fronte alla pargola nuda che si è sostituita a una di lui mignotta. Tutti gli altri caratteri principali: la madre (Clara Paoli), il fratello (Luis La Torre), la fidanzata del fratello (Paola Corazzi), la zia di campagna (Carla Calò) col marito erotomane (Enzo Andronico), il fidanzatino (Gianni Dei) e la nonna di questi (Ester Carloni), nonché il maturo e piacente papà di un amico, col quale la Gonella si invola alla fine (Giorgio Ardisson), sono figure riuscite, bozzetti che vivono, come in genere i personaggi dei film di Siciliano, che magari non era uno sceneggiatore inarrivabile ma era un ottimo ritrattista, uno psicologo interessato e affascinato dalle latebre dove si annidano i sentimenti meno prevedibili. Si conclude, quindi, per una non commedia, o, terenzianamente, per una contaminazione di elementi eterogenei, dal melodramma sociale alla farsa agreste, al grottesco, all’erotico moderatamente ginecologico, che insieme riescono a fondersi in un armonico concento. Scene clou: la Gonella che danza sull’aia portando il caffé allo zio e alla zia a letto, semplicemente incantevole. E quella in cui Franca, seduta in un parco, viene avvicinata da un vecchio barbone che, potendo godere solo della fantasia, prima mangia un panino intinto nell’odore della mortadella e poi immagina di farsi la ragazzina mimando un amplesso.