Uzeda – Do it Yourself
2024
“Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo’
Alone, The Cure
Uzeda – Do it Yourself è un documentario del 2024, diretto da Maria Arena.
C’è stato un tempo in cui l’indie non aveva nulla a che fare con cantanti improvvisati dai nomi strani, ma era una filosofia che cavalcava l’eredità del punk riformulandola negli anni ’80 con ‘do it yourself’, alternativo nel modo di fare musica, di farsi pubblicità (è talmente volatile il termine indie), tutto ciò che era avulso al mainstream. Quando gli artisti erano re, o per meglio dire quando erano degli eroi: punk, hardcore, oi, grunge, slowcore, post, math o noise rock … poco importava, erano quei ragazzi descritti da Michael Azerrad in American Indie. Eroi o, meglio ancora, ragazzi che attraversavano il mondo spesso in tour devastati, dove gli amici fatti per strada o i compagni di cartellone in un concerto diventavano una rete di sicurezza, così come un canale dove farsi conoscere da chiunque volesse ascoltarli, questo era l’indie, non i dischi prodotti con i 70.000 euro di oggi o le collaborazioni con Gucci che vi propinano negli ultimi anni i colleghi critici. Al sud di quel sud del sud dei santi citato da Carmelo Bene, nello specifico a Catania, gli Uzeda sono riusciti a creare un ponte sonoro tra la Sicilia e gli Stati Uniti, tra l’isola e la terraferma concretizzando quel noise rock che avremmo amato conoscendo in seguito gli Shellac, Drive Like Jehu, Unwound, Dinosaur Jr. and so on, magari tramite registrazioni carbonare spacciate dagli amici doposcuola.
Il bel documentario di Maria Arena (girato dal 2016 al 2020) segue il flusso, a tratti dissonante come la musica cara al gruppo, dell’incredibile storia degli Uzeda e più che un documentario musicale diventa un manifesto generazionale, un inno alla resistenza e una importante riflessione sull’arte e cosa significhi essere artisti. Uzeda – Do it Yourself, presentato in anteprima al Biografilm Festival, solleva diverse domande soprattutto se siete artisti e critici musicali.
In un’epoca in cui non si fa l’arte per l’arte, ma come mezzo per raccattare like, soldi, sponsorizzazioni e soprattutto fama, fa specie trovare i nostri ‘eroi lavoratori’, per dirla con Springsteen, alle prese coi mestieri più diversi pur di portare avanti un sogno o l’idea un sogno, soprattutto se pensiamo che i ragazzi della generazione Alpha e Z pensano che fare live cantando su Tik Tok sia massacrante. Insieme all’occhio sempre presente di Maria, c’è Patrick, un americano che per la sua tesi di dottorato vuole capire cosa c’è a monte di questa filosofia del DIY; così saltiamo senza soluzione di continuità nel passato come nel vicino presente del gruppo, è come guardare la vita degli Uzeda dallo spioncino. Giovanna Cacciola (tra le voci più belle degli anni ’90), il marito e chitarrista Agostino Tilotta, il batterista Davide Oliveri, il bassista Raffaele Giuliano e Gianni Nicosia (chitarrista fino al 1995) sono loro il dream team i cui nomi sono da ripetere a memoria come quelli di una formazione di calciatori uscita vincente da un mondiale. Sono personaggi così umani che riescono a saltare fuori dallo schermo, e Agostino -in qualche momento- pare un personaggio benevolo di un film di Aki Kaurismaki.
È una boccata d’aria fresca non solo rivedere Steve Albini (scomparso a maggio) applicare la sua etica e la sua amicizia agli Uzeda, ma constatare come il gruppo e i Minutemen prima di loro, abbiano battuto una strada, una via senza compromessi, che è servita poi alle generazioni successive (vedi i June of ’44) e, al contempo, a trasformare Catania in una piccola Seattle con una sua scena e un pubblico eccellente di fruitori di noise e math rock.
Uzeda, racconta Gianni, come la porta dedicata al vicerè spagnolo (Uceda) che aveva ricostruito la Val di Noto dopo il terremoto e l’eruzione a Catania, da qui la loro capacità di rigenerarsi continuamente e trovare soluzioni di fronte a ogni imprevisto: è il 1993 e Albini è ai Black Box Studios nel nord ovest della Francia, se il gruppo riesce a raccattare i soldi lui registrerà gratis. Gli Uzeda trovano i soldi e partono per la Francia avendo a disposizione un giorno e mezzo per registrare quattro pezzi per il quarto disco. Da quel piccolo miracolo di perseveranza nasce il sodalizio con la Touch & Go e il tour in America con gli Shellac e i Dis- e il resto è storia fatta di migliaia di concerti che li fa approdare nuovamente a Catania per una pausa. Giovanna fa la serigrafa, Raffaele l’insegnante, e la cosa mi ricorda di un altro grande come John Brennon (Negative Approach, Laughing Hyenas) che, se non ricordo male, si mantiene servendo insalate in una mensa. Gli Uzeda nascono negli anni ’80 proprio nel decennio dove l’imperativo era essere creativi e di successo, loro prendono il meglio da quegli anni ricordandoci che non si può avere tutto, che il prezzo della libertà è alto ma l’arte è una cosa che continuerà a esistere finché esisteranno persone di talento che si aiutano l’un l’altro. D’altronde, un altro genio degli anni ’90 cantava: Almost was good enough.