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Vinyan

2008
Titolo Originale:
Vinyan
REGIA:
Fabrice Du Welz
CAST:
Emmanuelle Béart
Rufus Sewell
Julie Dreyfus

Il nostro giudizio

Un film di Fabrice du Welz, con Emmanuelle Béart e Rufus Sewell. Vinyan è un film horror francese del 2008 presentato alla Mostra di Venezia, ma rimasto inedito in Italia.

Jeanne e Paul hanno visto morire il bambino nello tsunami di Phuket nel 2004. Rimasti vivere in Thailandia, partono nella giungla dopo che Jeanne crede di aver visto il ragazzino su un video amatoriale. Un nugolo di bollicine invade lo schermo e lentamente, si tingono di rosso: questo è l’incipit, cripticamente riassuntivo e profetico, di Vinyan, opera seconda del regista belga Fabrice Du Welz, già autore dell’interessante ed atipico Calvaire. Con questo film, presentato alla Mostra di Venezia nel 2008 e che passò inosservato (oltre a non essere stato distribuito nelle sale), Du Welz riafferma ed espone in maniera più definita la sua cifra stilistica personale, e ormai già riconoscibile: l’orrore come ombra sempre incombente ma lasciata al di fuori dello schermo, accompagnato da una magnifica fotografia fredda, ancora una volta ad opera di Benoît Debie, che simboleggia il tormento delle anime livide dei suoi protagonisti.

Anche Vinyan narra di un calvario, quello di Jeanne e Paul (una sempre splendida e intensa Emmanuelle Béart e il bravo Rufus Sewell), coppia di coniugi afflitti dalla perdita del figlio, avvenuta durante lo Tsunami di sei mesi prima, perdita avvolta dal dubbio, poiché il cadavere non è mai stato ritrovato, dubbio che tormenta e che nutre vacillanti speranze. A differenza di Calvaire, dove la totale assenza del Femminile costituiva il fulcro del film, qui esso divora la pellicola, in tutta la sua fisicità, incarnato da una Béart dolente, fantasma di se stessa, azzerata dalla forzata negazione di essere Madre.

L’evento scatenante ha luogo durante un viaggio a Phuket, in Thailandia: in un filmato girato in un villaggio birmano, Jeanne crede di riconoscere il figlio, nella figura di un bambino, ripreso di spalle. La fissità del fotogramma, sgranato, di quel bambino che potrebbe essere chiunque, riflette la fissità dell’ossessione di Jeanne, la sua non rassegnazione a quella perdita che è stata anche e soprattutto perdita di una parte fondamentale di se stessa. Inizia dunque il calvario, sotto forma del viaggio intrapreso dalla coppia verso la Birmania, dopo le ripetute insistenze della moglie e le resistenze del marito (figura antagonista e a tratti marginale, simbolo di una razionalità rappresentata come distacco emotivo); viaggio come inseguimento di una chimera, focalizzato sulla sorda speranza/disperazione di Jeanne. Viaggio che diventa sempre più cupo, in una natura ostile e carnale, anch’essa femmineo che fagocita il film. Una pioggia perenne fa da sfondo alla pellicola, con l’acqua che rende i protagonisti madidi, acqua che non lava bensì fa diventare marcescenti e deboli, come nell’afflizione data da un forte dolore.

Nel corso di una suggestiva scena nella quale Jeanne assiste ad una festa locale su un’isola, con lampade di carta che vengono fatte librare nel cielo, ci viene svelato il significato del titolo del film: ”vinyan” significa “arrabbiato, furioso”, e furiosi sono gli spiriti erranti che hanno incontrato una brutta morte; le lampade vengono lanciate in cielo dai vivi per guidarli, per dar loro un po’ di luce nell’oscurità del loro iracondo tormento. Queste, le parole di Thaksin Gao (Petch Osathanugrah), potente boss di Phuket al quale la coppia chiede aiuto all’inizio del viaggio per superare l’ostacolo della chiusura delle frontiere verso la Birmania.

Thaksin Gao è un personaggio ambiguo, chiede continuamente denaro alla coppia per proseguire il viaggio, presenta loro un bambino indigeno col volto dipinto di bianco e la stessa maglietta rossa indossata da Joshua, il figlio della coppia, al momento della scomparsa (e anche dal bambino del video), “ecco il bambino bianco che state cercando”; una beffa crudele, ma anche incredibilmente ingenua. Vinyan è la parola chiave del film: la rabbia di coloro morti di morte violenta, del dolore di Jeanne, ma anche e soprattutto quella di un paese più volte violato e ferito dall’Occidente. In questo senso, il personaggio di Thaksin Gao non è più negativo di una Jeanne o di un Paul che col loro denaro credono di comprare ciò che non si può, il lasciapassare per il raggiungimento di un’illusione. Lo sfruttamento tra la coppia e gli indigeni non è a senso unico e a sfavore della coppia come può sembrare a primo acchito bensì bilaterale e può simboleggiare una sorta di nemesi per tutto ciò che i “bianchi” hanno fatto a quelle terre. L’aspetto di Jeanne muta nel corso del film, si trasfigura, diventando un unicum con la natura che la circonda, fino allo splendido finale, che esplode, anch’esso furente quindi “vinyan”, in tutta la sua forza. Jeanne nel film è folle icona di disperazione, un’Adele H matura e madre che non vede e non vuole vedere la realtà, fino all’autoumiliazione (dolorosa la scena del riso), ma col cuore a suo modo puro nella sua ricerca. Aleggiano le ombre di Fitzcarraldo e di Aguirre di Herzog, in alcune scene, nell’ambientazione, nel concetto di uomo che sfida la natura inseguendo un sogno folle ed impossibile, e nell’allucinatorio ed allucinato finale.

Film simile dunque al precedente Calvaire nel concetto di percorso, di discesa nella follia, di sostanziale solitudine umana. Opposto ad esso nella sua carnale femminilità, e più maturo nel suo discostarsi da certi clichè presenti nel film d’esordio, che ricalcava il pattern del survival horror, rileggendolo in chiave diversa e con un’ottica tipicamente europea. Un film dunque da riscoprire, per assaporarne il gusto amaro e rabbioso, cercando, con la visione, di dargli una piccola luce.