
We Live in Time
2024
We Live in Time è un film del 2024 diretto da John Crowley.
Sapere quando e come una coppia si è conosciuta, è tra gli episodi più curiosi che si possano ascoltare. Ci si chiede come sarebbe finita se, quel fatidico giorno, le cose fossero andate diversamente. C’è chi si conosce tra i banchi di scuola, chi in un supermercato e chi, come i protagonisti di We Live in Time, in un ospedale, perché lei ha accidentalmente investito lui con la macchina (sì, davvero). Lei è Almut (Florence Pugh), un’ex pattinatrice ora divenuta chef, mentre lui è Tobias (Andrew Garfield), rappresentante della ditta Weetabix, alle prese con un divorzio e che quella sera stava andando a comperare delle penne proprio per firmarne i documenti. Tobias non avverte Almut della sua situazione coniugale: durante una serata al nuovo ristorante della ragazza gliela confessa e i due passano la notte insieme. Dopo un periodo di frequentazione, ad Almut viene diagnosticato un cancro alle ovaie che mina le loro possibilità future di avere figli. Decide di sottoporsi a delle cure nella speranza di una remissione, cosa che effettivamente avviene. Passano altri tre anni, i due si sono trasferiti in campagna e hanno avuto una figlia, ma l’ombra del cancro si ripresenta quando la donna inizia ad avvertire lancinanti dolori all’addome. Si ritroveranno, così, alle prese con un nemico che minaccia l’integrità della famiglia e, più di tutto, il ricordo che la bambina ne avrà.
Il soggetto affrontato è la tipica vicenda di trattazione della malattia su cui già nel 1952 Akira Kurosawa aveva riflettuto in Vivere (sebbene secondo modalità completamente diverse). Ciò che, tuttavia, differenzia We Live in Time da ogni altra pellicola incentrata sulla lotta contro il cancro, sono i continui salti temporali che costellano l’opera: la fabula risulta perciò frammentata in un intreccio che non segue l’ordine lineare della narrazione, attraverso più sintagmi temporali (la frequentazione dei due e la prima diagnosi, la dolce attesa, la malattia) intersecati tra loro da un montaggio ben scandito e stimolante, capace di passare da scene di immensa gioia, come quella della nascita di un figlio, alla tragicità derivata dall’aggravamento del tumore. Il tutto narrato con una fotografia calda e accogliente, che delimita i personaggi in ambienti di quotidianità dove ognuno di noi è destinato a lasciare un segno del proprio passaggio che permetterà ai nostri cari di ricordarci negli anni a venire.
Garfield e Pugh riconfermano le loro immense abilità recitative in prove toccanti ma mai invasive e sfoderano una chimica attoriale tra le più sincere dell’ultimo anno, capace di cullare lo spettatore in un vortice di sentimento puro e tuttavia perennemente affiancato dalla minaccia della malattia (la diagnosi di Almut viene presentata nella scena d’esordio). I due funzionano così bene insieme che diventa difficile pensare a una coppia sostitutiva, come se la sceneggiatura fosse stata scritta già tenendo conto della loro partecipazione, dalle smorfie di Pugh ai sorrisi raggianti di Garfield. Ulteriore nota di merito va alla gestione della retorica cinematografica, mai eccessiva o pedante ed elaborata in modo tale da prendere lo spettatore per mano per mostrargli la bellezza della vita più che l’orrore della morte, l’attesa verso l’inizio più che il terrore della fine: non esistono piagnistei, solo un quadrato ritratto della volontà di una madre di lasciare qualcosa di sé che la figlia possa ricordare con un sorriso. Il quesito centrale è come vorremmo trascorrere la nostra vita se dovessimo lasciare un ricordo di ciò che siamo stati o che abbiamo fatto, a prescindere dalle condizioni di salute, e il film ci chiede di pensarci. Abbiamo tutto il tempo per farlo.